Giornalisti e alpini |
Agosto 2017 |
Sono trascorsi oltre quattro decenni da quando ho indossato il cappello
alpino; anche per me come per tanti altri si è verificato una sorta di oblio per
quel periodo trascorso da giovane con tanti pensieri e aspettative per una vita
da adulto che allora stava iniziando.
I sacrifici, le rinunce, i pensieri altrove, il dover sottostare ad una
disciplina alle volte insulsa mi hanno fatto dimenticare il fatto di appartenere
ad una specialità che aveva e ha qualcosa di diverso dalle altre.
Lo spirito di corpo mi ha trovato disilluso, indifferente, scettico di fronte a
tante manifestazioni che vedevo e sentivo distanti dal mio pensiero e dalla mia
indole.
E' stato così, l’ho scoperto parlandone con tanti coetanei, per anni e poi… la
riscoperta.
Come un amore che non aveva trovato compimento ma la cui immagine con il passare
degli anni compariva sempre più frequentemente nel ricordo, la pulsione di
volersi riappropriare di un sentimento che volevo mi appartenesse, ha fatto
breccia ed ora sono qui felice di essere ridiventato un alpino.
Solo da qualche anno mi sono iscritto all’ANA.
Come partecipo a questa associazione? Nell’unico modo che mi è consono:
scrivendo e scrivendone! A dire il vero, devo confessarlo, non so fare altro. Ho
partecipato rimanendo quasi in disparte a qualche evento locale. Sì in disparte!
Quasi non volessi rinnegare le spinte emotive che mi avevano tenuto lontano
dagli alpini per tanti anni.
Si può cambiare idea? Solo gli stolti non lo fanno.
Quest’anno, mi sono detto, vado all’adunata e sfilerò con la mia Sezione.
Questo spirito alpino, l’alpinità come mi piace definirla con un neologismo, che
è lievitato nel mio sentire è arrivato al punto di ospitare un amico alpino
della Taurinense e la moglie nel fine settimana dell’adunata e, non solo, di
andare a Treviso anche il sabato.
Quella che descriverò ora è una cronaca personale della mia adunata del Piave.
L’Adunata del Piave
In qualche modo, con disagi che in altre occasioni avrei rifiutato a priori,
siamo arrivati a Treviso giusto per quella cerimonia così pregna di significato
che si è tenuta in San Nicolò nel primo pomeriggio.
Quando è uscito il labaro dell’ANA, dalla porta principale del tempio,
accompagnato dai dirigenti con il Presidente Favero in testa il sole ha
illuminato le medaglie appuntate nel drappo verde e ha reso dorate le aquile
sull’asta delle decine e decine di gagliardetti dei Gruppi provenienti da paesi
mai sentiti nominare, che lo seguivano in una processione bianco rosso verde e
oro.
Mi sono emozionato? Certo e senza vergogna.
E poi a passeggio per la città. Uno spirito di allegria senza momenti o
atteggiamenti smodati, solo risa e canti, rombi di tamburi delle tante fanfare
che si rincorrevano nelle strade del centro. Alpini dovunque e pulizia nelle
strade.
Ho avuto la certezza che le poche cartacce e bottiglie di plastica in terra non
avessero la paternità degli alpini ma di molti, troppi, giovani infiltrati
venuti a Treviso solo per fare cagnara. Gli alpini che fra le tante attività
meritorie che svolgono c’è anche quella della pulizia di quartieri di città, di
canali e strade sanno cosa vuol dire buttare l’immondizia e sporcare. Certamente
non sono stati loro.
Non vorrei ma devo parlare del ritorno in treno a Conegliano. Il contributo che
gli alpini danno al paese fra donazioni, il lavoro gratuito in mille occasioni,
quello essenziale nella Protezione Civile, è stato quantificato in milioni e
milioni di euro ogni anno. Penso che gli alpini avrebbero meritato, in occasione
della loro festa, una considerazione maggiore da parte di Trenitalia e quindi
del ministero dei trasporti. La riconoscenza non è una virtù dei dirigenti di
questo paese e la vergogna per la scarsa collaborazione dovrebbe essere un
motivo sufficiente perché il ministro Del Rio si scusi con tutti gli alpini e i
loro familiari che hanno fatto ore e ore di coda in piedi in attesa di treni che
arrivavano in stazione a Treviso come se quel sabato e quella domenica fossero
stati due giorni normali.
Pomeriggio di domenica
Che piacere trovarsi fra persone che si conoscono appena, tutti con la
camicia uguale ma diversa solo per il colore: una identità scevra da
campanilismo.
Ho raggiunto i miei al punto previsto per l’ammassamento attraversando sezioni
venete in attesa della sfilata: Vicenza, Padova, Bassano e sempre più vicino
fino agli amici di Vittorio e di Valdobbiadene.
Noi di Conegliano intruppati in una strada laterale, allegri, oserei dire
gioiosi malgrado le ore in piedi diventino due e poi ancora.
Ogni tanto un rullo di tamburi della nostra fanfara.
Il presidente Benedetti accaldato ma vigile e leggero come fosse della stazza di
quando l’alpino lo aveva fatto tanti decenni prima e poi tanti altri e gli
alfieri con il gagliardetto in mano pronti a dispiegarlo al via.
La luce va scemando quando ci incamminiamo dietro al Vittorio, una curva di
fronte a porta San Tommaso e poi il rettilineo parallelo alle mura.
E' un tripudio di persone di tutte le età. Bambini entusiasti, alpini che
avevano già sfilato, tante donne, ragazze e nonne, signore che mai si
sognerebbero di gridare “Evviva” a squarciagola. Non sono grida da stadio,
faziose, sfrenate; sono incitamenti allegri, sentiti, oserei dire affettuosi,
per tutti noi che sfilavamo in fronte di nove, che ci rendevano orgogliosi di
esserci. Certo che ero felice per quel tributo di sentimento che sentivo essere
un poco anche per me.
E' l’imbrunire, quasi buio quando ci avviciniamo a Piazza Vittoria.
La voce di Nicola Stefani che ci accoglie è stentorea ormai ma la grinta per
salutare il passaggio della nostra Sezione, che è anche la sua, ha un sussulto e
le parole non si sprecano, l’entusiasmo che ha profuso per ore riprende vita ed
è un tripudio di applausi per quelli di Conegliano.
Ormai è finita, un ultimo omaggio al labaro della Sezione con i dirigenti tutti
di fronte a salutarci.
Quanti eravamo? Avrei voluto mettermi a contare ma mi sono detto che eravamo
trecento metri o forse più dall’inizio alla coda della Sezione e tanto basta.
Ho aspettato, abbiamo aspettato, il treno per oltre un’ora ma la soddisfazione e
l’orgoglio erano così intensi che il treno poteva arrivare anche più tardi.
Dopo ore in piedi, con le gambe rigide, un poco di tempo in più non avrebbe
fatto la differenza.
E poi nello zainetto avevo un piccolo segreto: due magliette ricordo
dell’adunata, una di misura per i sei anni di Gabriele, una per i tre anni di
Riccardo, e un piccolo body per Francesco di tre mesi con la scritta “Mio nonno
è un alpino”.
Luigino Bravin
Fra i tanti, importanti, ma anche minimi, momenti di questi tre giorni di
adunata nazionale, uno ha fatto sorridere per la fantasia del suo autore, ma
emblematico dell’affetto e della generosità verso gli alpini.
Un signore di Treviso, in via Risorgimento, ha calato un tubo dal terzo piano
della casa dove abita collegato ad una damigiana di rosso ed una spina a livello
strada o meglio all’altezza giusta per bere a canna.
Il rosso che scendeva a comando non era uno scherzo ma un onesto uvaggio di
cabernet e merlot nostrani.
Evangelista Torricelli misurò per primo, a metà del Seicento, la pressione
atmosferica e scoprì che l’acqua non poteva essere aspirata oltre i dieci metri
e trovò quindi la spiegazione del detto che l’ acqua aveva “orrore del vuoto”.
Se l’acqua non può salire oltre i dieci metri, il vino scende anche se sono di
più di dieci. Quindi dieci metri di acqua equivalgono alla pressione di
un’atmosfera.
Tre piani, dieci metri di altezza.
Quel vino quindi, alla spina, aveva una pressione che lo rendeva un poco
frizzante quando arrivava a livello di alpino, quasi un prosecco colorato di
rosso.
Potenza della fantasia e della stima per gli alpini.
L.B.