AL MUSEO DEGLI ALPINI |
Giugno 2019 |
Il
museo degli alpini di Conegliano che espone reperti di diversa provenienza ma
legati alla storia del corpo e, in particolare al 6^ e 7^ reggimento alpini che
proprio in quel posto dove c’era la caserma Marras hanno visto la luce.
Quello
che è indubbiamente un fiore all’occhiello per la nostra città non è mai stato
solo una raccolta di cimeli ma una occasione di scoperta, di studio e di
conoscenza per la cittadinanza ma anche per i giovani alunni e studenti delle
scuole.
Nelle sale del museo ha trovato ospitalità la mostra dedicata agli ex
internati nei lager nazisti nella seconda guerra mondiale, mostra voluta da
Giulia Bareato Perini vedova di Ernesto Perini, ex internato in Germania, che
molti in città hanno sconosciuto e apprezzato.
Sono stati raccolti i nomi degli
oltre 1000 internati coneglianesi e di Conegliano, Codognè, Gaiarine, Mareno di
Piave, Santa Lucia, Susegana, Vazzola e Vittorio Veneto. Poi decine di cartoline
e lettere, documenti originali con tanto di foto che i tedeschi con il loro
ordine maniacale assegnavano ad ogni soldato preso prigioniero dopo l’8
settembre ’43, immagini dei lager con le centinaia di uomini denutriti, in piedi
al gelo in una delle numerose adunate senza scopo che segnavano le ore di
giornate senza fine.
Sabato 13 aprile c’è stata l’inaugurazione della mostra che
rimarrà aperta il sabato e la domenica dalle 15 alle 18 fino a gennaio 2020 con
ingresso libero. Di fronte ai numerosi presenti, ai gagliardetti dei Gruppi
della Sezione di Conegliano, a diversi figli di ex internati come lo scrivente,
Giulia Bareato Perini ha ricordato il marito e la sua vita di ex internato, con
voce ferma e grinta invidiabile malgrado i suoi oltre novanta anni.
E' poi
intervenuta Mariacristina Gribaudi presidente della Fondazione Musei Civici
Veneziani e figlia di un ex internato che ha ricordato la figura paterna e la
sua lungimiranza imprenditoriale.
Ha parlato poi l’oratrice ufficiale, la
giovane studentessa universitaria di storia Emma Dal Mas che con parole
emozionanti e sentite ha ripercorso la tragedia di centinaia di migliaia di IMI
che con coraggio hanno rifiutato di tornare in Italia per combattere al fianco
dei nazifascisti e quindi che la loro tragedia venga riconosciuta come il primo
embrione della Resistenza. L’auspicio di altri che sono poi intervenuti è che la
scuola faccia la sua parte portando a conoscenza degli studenti tutti i
sacrifici e il dramma vissuto dai loro bisnonni.
E' quindi intervenuto un
rappresentante dell’A.N.E.I. (Associazione Nazionale ex Internati) di Padova che
ha ricordato come il loro museo sia frequentato da numerose scolaresche e come
sia doveroso far sì che le nuove generazioni non dimentichino quello che è
accaduto in Germania ai loro bisnonni.
C’è stato poi il taglio del nastro da
parte della signora Perini e di altre due anziane vedove che hanno vissuto le
angosce dei loro uomini al ritorno dall’internamento nella primavera estate del
1945.
La generosità e la disponibilità degli Alpini della Sezione di Conegliano
non si è smentita: il loro apporto alla realizzazione della mostra e alla
riuscita dell’evento è stato determinante. Il fatto che fra le centinaia di
migliaia di internati (oltre 700.000) almeno 600.000 non hanno aderito alla
R.S.I. e sono rimasti a patire in Germania è da ricordare. Tra essi va ricordata
la figura di Mario Rigoni Stern, alpino, reduce della Ritirata di Russia,
ricordata nel suo libro capolavoro “Il sergente nella neve”, autore di numerosi
altri libri, persona ricca di umanità e divulgatore instancabile in tante
scuole.
Ebbene fra i tanti racconti, uno in particolare mi ha segnato come figlio di un internato, quello dove lui descrive la vita in un campo in Masuria nel nord est della Polonia. Eccone alcuni brani dal racconto “L’incredibile dono”.
…Come custodi avevamo quattro soldati e un sottufficiale, tutti inabili per ferite di guerra, sul lavoro assistevano anche degli anziani Meister prussiani e su tutto: su noi, sugli altri distaccamenti di prigionieri che erano nella zona, sui polacchi, sui lettoni, sulla ferrovia, sui tedeschi, c’era a comandare un ex ufficiale delle SS senza un braccio e sempre vestito di nero, e che ogni giorno passava a controllarci sul lavoro, in piedi sopra un carrello a batterie manovrato da un soldato.
…La stalla dove si dormiva era calda perché quasi del tutto interrata, e poi la grande stufa in ghisa e cotto veniva alimentata con il carbone che si raccoglieva lungo la ferrovia e che i fuochisti lasciavano cadere perché impietositi dalla nostra miseria. Anche dalle tradotte militari che andavano al fronte verso Leningrado cadeva qualcosa perché i cuochi dei soldati nel vederci così malandati, esposti alle intemperie e cupi, certe volte facevano rotolare dalla scarpata rape, patate e cavoli che scartavano dal vagone viveri. Noi naturalmente, si raccoglieva tutto; ma mentre il carbone veniva messo in un mucchio comune, per le cose da mangiare ognuno disponeva come gli accomodava e le più volte nella pausa fra le dodici e le tredici queste verdure venivano mangiate così com’erano mentre si stava rannicchiati sottovento vicino ad un magro fuocherello di sterpi ai piedi della scarpata.
... dei quattro civili che sorvegliavano e dirigevano il nostro lavoro due si mettevano alle estremità del tratto di ferrovia in opera e al passaggio di ogni treno suonavano la tromba per segnalarci il pericolo. Passavano treni merci, treni di soldati che andavano al fronte, treni carichi di feriti che ritornavano, treni locali di passeggeri; ma ogni tre giorni passava anche puntuale e veloce un treno tutto lucido, con vagoni letto e vagoni ristorante. Vedevamo come in un sogno passare tra le luci figure di signore ingioiellate e con il corpo avvolto in vestiti leggeri, ufficiali carichi di decorazioni sopra le pulitissime divise, camerieri in giacca bianca e alamari d’oro che servivano cibi e bevande sopra candide tovaglie. Ma da quel treno mai cadde un cicca o un pezzo di pane. Alla sera si trascinava la nostra stanchezza verso la stalla dove ci aspettava un poco di caldo, un litro di zuppa e una fetta di pane. …Fu la nostra Pasqua del 1944. Ma io avevo quel giorno una cosa che gli altri non avevano: un uovo. Un uovo di gallina cotto e colorato con le erbe, come quelli che le ragazze del mio paese usano donare ai ragazzi la vigilia dell’Ascensione, e aspettavo di mangiarlo nell’angolo del recinto dove si vedevano la campagna e le betulle rinverdite. Quell’uovo me lo aveva infilato in tasca una bambina polacca che ogni mattina incontravamo quando si recava a scuola con i compagni. Ci guardavano passare e ci regalavano un sorriso. La mattina del Sabato santo si era avvicinata furtiva e lesta; poi sentii quel peso insolito nella tasca e con la mano avevo scoperto al tatto l’incredibile dono.
…Non c’erano impianti per l’acqua e si attingeva a due pozzi, uno per noi e uno per i russi, scavati nello spiazzo della conta. Ma anche l’acqua era morta e lasciava nella bocca sapore di limo e sabbia. Non esisteva neanche la baracca delle latrine e la bisogno si andava all’orlo di una fossa scavata lungo i reticolati, l’erba che cresceva stentata negli spazi non calpestati era secca e gialla e non trovai specie mangiabili. La sera del nostro arrivo i guardiani russi vennero a prendere otto di noi che poco dopo ritornarono portando a spalla, su quattro stanghe, quattro mastelli di patate lessate che posarono nel mezzo della baracca. Senza litigare e senza ingorghi riuscimmo ad imporci una certa disciplina e dividerci le patate che poco a poco tutti vomitammo perché guaste.
…Il pane, umido, con tracce di paglia, ammuffito e rosicchiato dai topi, ci veniva consegnato al mattino dopo la conta che avveniva nel grande piazzale ventoso. Questa operazione era sempre molto lunga perché conta e riconta, a file di cinque, di sette, di dieci andava a finire che i guardiani russi perdevano il numero che il caporale tedesco, come un dio, aspettava sotto l’ombra dell’unico albero da dove pendeva la forca. In questo frattempo qualcuno di noi cadeva svenuto per la fame e dieci prigionieri italiani e dieci russi, sotto scorta, tiravano i due carri dei morti sostando davanti ad ogni baracca. I nostri compagni e i prigionieri russi che durante la notte avevano finito le loro pene, venivano spogliati nudi, caricati sul carro e portati nelle grandi fosse fuori dai reticolati, in fondo al Lager, dove incominciava il bosco. Scaricati laggiù venivano aspersi con palate di calce. Forse è questo il luogo e i fatti che il contadino polacco Henryk Baranoski testimoniò al procuratore del tribunale di Lublino il 12 aprile del 1948…
“
Circa il trattamento fatto ai prigionieri faccio presente che la mortalità era
molto alta a causa della fame che pativano e delle malattie infettive …” Per
nostra fortuna non restammo tanto tempo al “344” perché dopo un mese chiamarono
il nostro gruppo nello spazio della conta dove ci fecero spogliare nudi come
vermi su un’unica fila. Un caporale teneva un registro dove erano segnati i
nostri numeri di matricola mentre un sergente ci esaminava uno per uno
tastandoci le braccia e dandoci un pizzicotto sulle natiche con la mano guantata.
Al riscontro dei sintomi dava la sentenza: uno, due, tre. Capii subito cosa
volessero dire con quella classificazione che il caporale segnava
scrupolosamente accanto ai nostri numeri: lavori pesanti, lavori leggeri e fine
nel Lager. Quando il sergente mi giunse davanti cacciai fuori il petto e tentai
di gonfiare i muscoli: osservò anche una cicatrice che ho sulla caviglia
sinistra e io osai dire” Russland”. Sentenziò uno. E forse fu la mia salvezza.
Questo accadeva nel maggio di quarant’anni fa. Alcuni anni or sono mi interessai
per conoscere il nome di quel “344” e venni a sapere che in quella località,
dopo che furono allontanati, o morti, i prigionieri italiani e russi, vennero
rinchiusi i superstiti della rivolta del Ghetto di Varsavia.
Uno solamente uscì
vivo, un poeta che al Lager”344” dedicò un poema.
Gigi Bravin
Il taglio del nastro della mostra sugli ex internati da parte di Giulia Bareato Perini
Omaggio
floreale alle donne intervenute alla cerimonia
Il vice presidente Simone Algeo porta il
saluto della Sezione
Alcune teche dove sono contenuti, oggetti, immagini, documenti appartenuti a ex
internati nei lager nazisti
Davanti al Museo gli interventi degli oratori
Giulia Bareato Perini si intrattiene con il pubblico