NIKOLAJEWKA |
Giugno 2023 |
Quest’anno la commemorazione della battaglia di Nikolajewka porta alla mente
eventi tristemente contemporanei, segno forse che gli eventi che coinvolsero i
nostri reduci non hanno insegnato nulla alle nuove generazioni.
Nikolajewka, Kharkiv, il Don: ancora si muore nella terra del sacrificio degli
alpini raccontato da Rigoni Stern, Bedeschi e Revelli. Dal giorno in cui è
iniziata la guerra della Russia all’Ucraina, il 24 febbraio 2022, la cronaca dal
fronte si sovrappone alla memoria di un capitolo tragico ed eroico della nostra
storia, quello della ritirata degli alpini italiani dal fronte russo.
I luoghi sono incredibilmente gli stessi: Kharkiv, la regione del Donbass, il
fiume e la città di Dnipro.
Tra il 1941 e il 1944 il Paese fu teatro di durissimi combattimenti in cui si
affrontarono l’Armata Rossa di Stalin e la Wehrmacht di Hitler e l’ARMIR di
Mussolini. Dai ponti distrutti per fermare il nemico alle famiglie divise: il
conflitto somiglia sempre di più alla tragedia di 80 anni fa. L’invasione
dell’Ucraina, un’autentica guerra convenzionale, riporta alla memoria alcune
caratteristiche del secondo conflitto mondiale più di quanto non sia avvenuto
negli anni Novanta in riferimento alla ex Jugoslavia, dove hanno prevalso le
caratteristiche della guerriglia. Del resto proprio l’Ucraina fu a suo tempo
teatro di durissimi combattimenti in cui si affrontarono, tra il 1941 e il 1944,
l’Armata Rossa e le forze dell’Asse impegnate nell’operazione Barbarossa.
C’è poi l’aspetto più tragico, il coinvolgimento delle popolazioni civili
soprattutto nelle città. Le immagini degli ucraini stipati nei rifugi ricordano
fin troppo da vicino quelle degli abitanti di tante città, anche quelle
italiane, flagellate dai bombardamenti durante la guerra. I colpi, allora come
oggi, non risparmiavano strutture come le scuole e gli ospedali. I volti
insanguinati delle persone ferite che si aggirano tra le macerie degli edifici
rimarranno a lungo nella nostra memoria, come quelle delle vittime di
ottant’anni fa.
Altrettanto drammatiche, e altrettanto familiari, sono le fotografie delle folle
che si assiepano nelle stazioni per fuggire lontano dall’area dove cadono bombe,
missili e colpi d’artiglieria. È un’umanità disperata che ha perso tutto e si
porta dietro lo stretto indispensabile verso una salvezza che coincide con il
destino amaro dell’esilio. Si sta verificando, sia pure spontaneamente e non in
modo coatto, uno spostamento di popolazione simile a quelli, biblici, che
contrassegnarono il conflitto mondiale.
Impressionano le immagini, con i sacchi di sabbia intorno ai monumenti che
ricordano la fine del conflitto mondiale per proteggerli, che giungono da Kiev,
Mariupol, Odessa, Kharkiv. Più a sud, nell’attuale regione secessionista di
Donetsk (allora chiamata Stalino) operarono nel 1941 anche le forze italiane del
Corpo di spedizione italiano in Russia, poi trasformato in una vera e propria
armata e schierato sul Don.
Simone Algeo
Questo è il discorso pronunciato dall’allora presidente nazionale Leonardo
Caprioli a Varese il 26 gennaio del 1997, nel 54° anniversario della storica
battaglia.
È un testo che non ha bisogno di commenti e che dovrebbe essere letto di tanto
in tanto nelle scuole per far riflettere i giovani sui sacrifici sopportati da
quanti - giovani della loro età - furono mandati a combattere una guerra che non
volevano né comprendevano, ma non per questo vennero mai meno a quanto imponeva
loro il senso del dovere:
“Nikolajewka per me è il generale Martinat che, alpino tra i suoi
alpini, si è buttato con loro contro quel baluardo che c’era al di là del
terrapieno della ferrovia ed è caduto in mezzo ai suoi alpini, colpito in fronte
da un proiettile nemico.
Nikolajewka per me sono quei due aerei russi che, mentre l’Edolo, il mio
battaglione, stava cercando di aprirsi la strada tra gli sbandati per correre in
aiuto dei fratelli del 6° che fin dal primo mattino stavano combattendo, hanno
fatto sopra di noi due o tre giri mitragliandoci ed aprendo così ulteriori
paurosi vuoti tra le nostre file.
Nikolajewka per me è il sottotenente Mori del battaglione “Verona” che,
prima di partire all’attacco, ha chiesto al capitano se con i suoi alpini poteva
fare un’ultima cantata: e fu proprio l’ultima, perché poco dopo cadeva alla
testa dei suoi uomini falciato da una raffica nemica.
Nikolajewka per me è l’attendente del sottotenente Nelson Cenci che,
visto cadere il suo ufficiale con un ginocchio passato da parte a parte da una
pallottola e con il femore dell’altra gamba spezzato da un’altra pallottola, lo
raccolse amorevolmente e lo adagiò su una slitta, riuscendo in tal modo a
portarlo in salvo: e quando Cenci, febbricitante e arso dalla sete gli chiedeva
da bere, non avendo a disposizione nessun recipiente, riempiva la bocca d’acqua
e poi gliela passava appoggiando le sue labbra su quelle del suo tenente e
subito dopo gli diceva: “Forza, signor tenente, che ce la faremo!”.
Nikolajewka per me è quella chiesa dal cui campanile una mitragliatrice
seminava tra noi terrore e morte, e io ebbi l’ordine di andare a farla tacere: e
allora mi misi a correre in direzione di quella chiesa e ad ogni passo mi
dicevo: “Adesso mi prendono, adesso mi prendono, adesso mi prendono…”. E invece,
come per un miracolo, quando fui a pochi metri dalla chiesa la mitragliatrice
tacque e io allora mi misi a piangere.
Nikolajewka per me è quel maledetto terrapieno che si presentò a noi candido
perché coperto di neve e poco a poco divenne tutto nero, un puntino nero dopo
l’altro, un alpino dopo l’altro.
Nikolajewka per me è quell’isba dove, finita la battaglia, trovai riparo
con un altro sottotenente e una quarantina di alpini: i pochi rimasti della 52ª
dell’Edolo e dove poco dopo riuscì a trovarmi mio fratello, che era stato ferito
il 16 mattina, quando i russi attaccarono l’Edolo e che il giorno prima era
stato catturato e rinchiuso, con altri tre o quattrocento soldati italiani, in
un capannone proprio a Nikolajewka, e noi li liberammo senza saperlo.
Nikolajewka per me è il capitano Grandi del Tirano che, colpito a morte
chiama a raccolta i suoi alpini e li invita a cantare “Il Testamento del
Capitano” e muore così, con quelle note nel cuore.
Nikolajewka per me è una marcia che non ha mai fine, fatta di spari
improvvisi e di silenzi di morte, di urla disumane e di invocazioni di aiuto, di
lacrime che ti restavano sugli occhi perché appena uscite si congelavano, di
improvvise pazzie e di eroismi che non si possono raccontare perché ti
risvegliano ricordi troppo dolorosi, di una pista nella neve dove ogni tanto
qualcuno si lasciava cadere esausto e restava là, immobile nel gelo che subito
lo pietrificava; di combattimenti disumani, di ferite, di dolore, di speranze e
di pianti sconsolanti, del ricordo della mamma e della morosa.
Nikolajewka per me è quella domanda che i nostri alpini ogni momento ci
rivolgevano e che era diventata un’ossessione, una implorazione, una speranza e
un pianto: "Signor tenente, quando torneremo a baita?". Non dicevano
quando torneremo in Italia o in Lombardia o in Friuli; avevano nella mente e nel
cuore solo la loro baita, con quel calore che solo gli affetti familiari sanno
dare, con il focolare dove nelle umide serate d’autunno e nelle gelide notti
invernali ci si sedeva e i più anziani raccontavano ai più piccoli meravigliose
favole nelle quali quasi sempre l’eroe che vinceva i cattivi era un uomo che
portava un cappello con una lunga penna nera. E pensando alla baita che tutti
gli alpini hanno sempre nel cuore mi torna in mente una frase che ieri, a
Brescia, una bambina di 11 anni della Scuola “Tridentina”, ci ha detto al
termine del suo saluto ai reduci: “Il mio villaggio è il mondo”.
In questa frase di una profondità concettuale e di un valore immenso c’è tutto:
il desiderio di una bambina di 11 anni - nella sua innocenza, non ancora conscia
delle brutture in mezzo alle quali purtroppo viviamo - di non voler limitare i
suoi affetti e le sue speranze solo alla sua casa, alla sua baita, ma di voler
allargare questi suoi sentimenti al mondo intero: ed ecco allora che, come per
un miracolo, i muri che delimitano la baita vengono abbattuti e la singola baita
si allarga e si unisce ad altre baite diventando paese, provincia, regione,
nazione, Europa, mondo. In questo concetto e con questa visione ogni baita deve
essere in grado di vivere, non solo nella sua ristrettezza, ma deve essere in
grado di dare il suo contributo e il suo aiuto alle baite di altri uomini che
meno di lei hanno la possibilità di vivere e di produrre: ognuno deve avere il
sacrosanto diritto di vivere per se stesso, ma anche e soprattutto deve sentire
il dovere di dare aiuto a chi ne ha bisogno, porgendo la mano al vicino con la
sicurezza che, quando ne avrà bisogno il vicino gli porgerà la sua.
Bisogna fare in modo che da ogni baita non debba essere mai allontanato il
focolare, fonte di calore e di vita: il giorno in cui dovessimo togliere il
focolare non solo dalla nostra ma anche da tutte le altre baite, avremmo dei
corpi senza cuore e senza anima sentimento più nobile e più bello che deve albergare
in ogni uomo: l’amore per il prossimo. Per
questo sono morti i miei alpini a Nikolajewka,
senza pensare egoisticamente solo a sé stessi, ma
offrendo i loro vent’anni anche a tutti quelli che,
non più in grado di combattere e di continuare
la marcia, avevano posto in loro ogni speranza.
L’Associazione Nazionale Alpini deve essere per
noi tutti come una grande baita che vive, accanto
ad altre, nella nostra Italia: tanti alpini, spontaneamente
e con l’affetto che provano nei miei
confronti spesso mi dicono che io sono il “papà
di tutti gli alpini d’Italia”.
Quando questa sera lascerò Varese vorrei
avere nel cuore la certezza che la nostra baita resterà
sempre unita con quell’amicizia, quel calore,
quell’affetto che ci hanno sempre contraddistinto
e che fanno di noi una grande, unica,
invidiata famiglia. Ve lo chiedo e lo spero per
quei 28 ragazzi del mio plotone che non sono
più tornati, ve lo chiedo per tutti quegli alpini
che oggi noi vogliamo ricordare.
Grazie, amici, per questo vostro essere uomini
e alpini al di sopra degli egoismi personali:
vi saluta e vi abbraccia il vostro papà alpino; a
voi tutti buona fortuna.