Storie dei nostri veci |
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AGOSTINO MEROTTO |
Agosto 2017
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A Nikolajevka si è combattuto uno degli scontri più cruenti e importanti
della campagna di Russia nella seconda guerra mondiale Agostino Merotto, classe
1922, ha buone ragioni per affermare con orgoglio di esserci stato anche lui:
con i propri occhi ha visto la strage che si compì il 26 gennaio 1943; è
sfuggito d’un soffio alla morte, quando una bomba gli è scoppiata alle spalle;
conserva negli occhi e nella memoria scene strazianti, ma anche azioni eroiche
dei suoi commilitoni e la coraggiosa determinazione del sergente Settembrini
che, quando si prospettava l’unica possibilità della resa, rianimò i suoi alpini
e li portò con le bombe a mano a un assalto che contribuì ad aprire la via della
ritirata dalla grande sacca del fiume Don, dove italiani, tedeschi, ungheresi,
romeni… erano asserragliati dai reparti dell’Armata Rossa sovietica.
L’orgoglio di Agostino si vela subito di mestizia: lui ha fatto ritorno a casa e
dopo 73 anni può ancora raccontare; è l’ultimo rimasto dei reduci sernagliesi
dalla Russia; gli altri sono «andati avanti», come dicono gli alpini: Onorato D’Agostin,
Vittorio Bernardi, Eugenio Villanova, Nini Gaiada, Gennaro Da Riva.
Degli altri, dispersi lassù, le famiglie non hanno più saputo nulla: Giacinto
Bressan, Domenico Marsura, Primo Lucchetta, Zaccaria Bertazzon, Venceslao
Stella, Giovanni Pederiva, Vigilio Fedato, Leonardo Villanova.
Agostino sente il dovere di ricordare in questo momento anche i reduci dagli
altri fronti di quella guerra che sono ancora tra noi: Rinaldo Ghizzo, Ferruccio
Bertazzon, Modesto Grotto e Luciano Micheletto.
A vent’anni in trincea
Chiamato alle armi il 15 gennaio 1942 e arruolato nel VII Alpini di Belluno,
dopo alcuni mesi di addestramento Agostino è pronto, si fa per dire, per andare
al fronte. Nel frattempo è passato alla Tridentina VI Alpini e la tradotta per
la Russia parte il 15 ottobre 1942. Proprio quel giorno Agostino compie
vent’anni!
Giunge a Belogor il primo novembre; il mese successivo tocca al suo Battaglione
dare il cambio al Val Cismon e Agostino è “in linea”, di fronte al nemico, fino
al 16 gennaio, quando l’urto dei russi diventa insostenibile: crolla lo
schieramento italo-tedesco sul Don dopo la grande offensiva (Ostrogorsk-Rossosc)
dell’Armata Rossa iniziata cinque giorni prima; alle forze dell’Asse non resta
che la scelta del ripiegamento; occorrono ben ventuno aspri combattimenti per
giungere a Nikolajevka, dove si compie l’ultimo disastro, ma allo stesso tempo
si riesce ad aprire un varco, uscire dalla sacca di accerchiamento e iniziare la
ritirata. Agostino resiste negli scontri militari e nella marcia pur avendo
riportato il congelamento a tutti e due i piedi; appena possibile viene prima
ricoverato nell’ospedale di Varsavia, poi in un ospedale tedesco di riserva.
I ricordi
Quali pensieri passavano per la sua testa in quei giorni? «Ovviamente e prima di
tutto quello di portare salva la pelle a casa.
Il pensiero della morte, possibilissima, anzi assai probabile, in mezzo a tanto
disastro, si accompagnava sempre con un altro: che la mia famiglia avesse, nel
caso, notizie certe di me e che il mio destino non rimanesse velato dietro la
parola terribile di “disperso”, che ha causato un succedersi di illusioni e di
disperazione in tante famiglie. Se fosse capitato, che almeno fossi pianto
definitivamente!»
Conserva il ricordo di qualche episodio importante vissuto? «In questo momento
ne ritornano alla memoria tre: nel caos drammatico di quel 26 gennaio, io,
congelato ai piedi, sono riuscito a soccorrere un bresciano e a portarlo fino al
centro di raccolta dei feriti; non l’ho più rivisto e di lui non ho più saputo
nulla.
Al centro feriti, poi, ho incontrato un amico di Bigolino, Nini (Sebastiano);
aveva in tasca 10 marchi tedeschi e me li ha dati prima che partissi per
Varsavia; anche lui è ritornato a casa, l’amicizia fraterna è durata a lungo,
fino a pochi anni fa, quando è morto.
Il terzo episodio è accaduto prima che sopra Nikolajevka passassero i quattro
bombardieri russi e compissero l’atto finale; eravamo appena arrivati dal
fronte, distrutti e affamati; mi sono spinto nella parte alta di Nikolajevka
mendicando un po’ di cibo, un tozzo di pane; dopo molti tentativi inutili, entro
in un’isba, dove una famiglia con bambini sta consumando il pasto; sono seduti a
terra, allargano subito il cerchio, fanno posto anche a me e, con loro, prendo
dall’unico catino qualche boccone di orzo lessato.
Il cucchiaio con cui ho mangiato quel giorno l’ho portato con me e lo conservo
come una reliquia preziosa.»
Il ritorno
Il giorno di San Valentino 1943 partì il carro bestiame che portò Agostino fino
al Brennero; su quei carri viaggiavano normalmente 21 muli e lì dentro
caricarono 40 alpini malconci, con un po’ di paglia sulla quale distendersi. Al
Brennero si cambiò treno fino a Barletta, nelle Puglie, raggiunta dopo ben
cinque giorni.
Per le cure mediche del caso Agostino passò di ospedale in ospedale: da
Barletta, a Milano, a Pavia.
Il 20 aprile fece ritorno a Sernaglia in convalescenza prima per 60 giorni e poi
per altri 90, fino a che fu dichiarato “riformato” e sciolto da ogni obbligo di
leva militare.