Storie dei nostri veci |
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ANDREA MARCIANO |
Settembre 1999
Ai primi di settembre di 57 anni fa
giunse in Russia dopo 10 giorni di tradotta la divisione alpina Julia che andò
a far parte del corpo d’Armata Alpino schierato lungo la riva destra del Don
nel tratto compreso tra le località di Babka e Nowo Kalitwa.
La sua funzione doveva essere solo di
difesa in attesa che le armate tedesche decidessero le sorti della guerra nel
territorio di Stalingrado. Purtroppo le cose andarono diversamente e con
l’arrivo dell’inverno quella calma e sterminata distesa di neve e di
ghiaccio sulla destra del Don divenne teatro di numerosi scontri e battaglie
dalle quali molti nostri soldati non fecero più ritorno.
A ricordo di questi tragici eventi
abbiamo posto alcune domande all’Alpino Andrea Marciano di Pieve di Soligo,
classe 1914, caporalmaggiore della 277a compagnia, Btg. Val Cismon, divisione
Julia.
- Quando partì per la Russia?
Partii da Aidussina in treno il 13/8/42
e arrivai a Jsium sul Donetz ai primi di settembre. Dopo 10 giorno di marcia,
raggiunsi con il mio battaglione la riva destra del Don.
- Cosa avete fatto appena avete raggiunto la linea?
Abbiamo dato il cambio agli Ungheresi e
abbiamo cominciato a scavare trincee profonde non solo per difenderci da
eventuali attacchi, ma anche per affrontare meglio l’inverno che era alle
porte.
- Quale era il suo grado e quale arma aveva in dotazione?
Ero caporalmaggiore della 277a
compagnia e avevo in dotazione una mitragliatrice d’assalto leggera.
- Fino a quale giorno la vostra divisione rimase sul tratto di fronte occupato
nel mese di settembre?
Fino al 18 dicembre: in seguito per
ordine del generale Gariboldi lasciammo le nostre trincee per spostarci,
sempre a piedi, a sud dello schieramento del Corpo d’Armata Alpino che era
stato minacciato alla sua destra da forti infiltrazioni russe.
- Per quanto avete resistito su queste nuove posizioni?
Per circa un mese; mi pare fino al 18
gennaio.
- Quanto duravano i turni di guardia?
Due ore circa. Ma due giorni prima di
Natale rimasi di turno durante la notte per ben otto ore.
- Come trascorse la vigilia di Natale?
Ero appena rientrato e stavo riposando
al caldo in una stalla di cavalli con i miei compagni quando ci giunse
l’ordine di ripartire immediatamente per difendere la nostra linea di fronte
che era stata duramente attaccata dal nemico. Fuori ci aspettava un carro
tedesco che ci portò in cima alla collina. Il carro poi tornò indietro; io
invece con la mia mitragliatrice presi posizione insieme a tutta la squadra e
cominciai a dar man forte agli altri alpini in difficoltà. Quell’azione di
guerra fu la mia salvezza. Infatti al rientro dalle linee trovai distrutta
dall’artiglieria russa la stalla dei cavalli dove mi trovavo la mattina
stessa.
- Ha mai visto i carri armati russi in azione?
Nel mio settore e durante i miei turni
non ho mai avuto l’occasione di vederli, per fortuna.
- Quando cominciò la ritirata del corpo d’armata alpino?
Il 17 gennaio; ma io non ho fatto la
ritirata. Avevo infatti ricevuto l’ordine di restare in linea con la
mitragliatrice per tenere a bada i Russi e per permettere lo sganciamento
della mia compagnia. I Tedeschi infatti avevano ceduto alla destra della Julia
e tutte le divisioni alpine erano ormai accerchiate. Dalla mia squadra due
miei compagni si allontanarono quasi subito dalla postazione dove mi trovavo,
su invito del sottoscritto. L’Alpino Bruno Ocri volle restare accanto a me
ad ogni costo fino al momento della cattura.
- Come avvenne?
Una volta che tutto il battaglione si
era sganciato vidi apparire alle mie spalle due partigiani che ci intimarono
la resa e mi spogliarono dei ricordi personali. Passati pochi secondi apparve
un ufficiale russo con gli sci e vestito di bianco il quale si rivolse a me
chiedendomi: “Deutsch? Deutsch ?”. Forse voleva sapere se c’erano
tedeschi o se ero tedesco. “Niet Deutsch – risposi – Deutsche cikai
vecera (no tedesco – I tedeschi sono scappati ieri sera)”.
L’ufficiale prese la racchetta, fece
un cerchio sulla neve, segnò un punto al centro e mi rispose: “Niet Deutsch
cikai. Rossosch caput (i tedeschi non fuggiti. Rossosch è caduta)”.
Intendeva dire che Rossosch, città che era nelle nostre retrovie era stata
circondata e che per i Tedeschi non c’era via di scampo.
- Come aveva appreso il russo?
Da una piccola grammatica che il nostro
comando aveva provveduto a distribuire.
- Come iniziò la sua vita di prigioniero di guerra?
Io e l’alpino Bruno Ocri fummo
accompagnato in un’isba. Il giorno dopo fummo incolonnati con prigionieri di
diverse nazionalità e accompagnati dalle guardie russe camminammo per 10
giorni sulla neve. Finita la marcia del “davai” fummo stipati in vagoni
bestiamo e furono altri 10 giorni d’inferno. Ogni mattina un soldato russo
apriva il portellone del carro e ci rivolgeva la solita domanda “Kolcai
caput? (quanti morti?)”. Scaricavamo così i cadaveri che venivano
trasferiti sugli ultimi vagoni. Arrivati a Tambov da questi ultimi vennero
gettati a terra decine e decine di morti resi duri e rigidi dal freddo polare.
Di 40 prigionieri che c’erano nel mio vagone, solo 18 riuscirono ad arrivare
a destinazione.
- Quali erano le condizioni di vita nel campo di concentramento?
All’inizio difficili. Poco cibo,
niente assistenza medica. Molti morirono privi di forze. In aprile cominciammo
a star meglio. Da Tombov fummo trasferiti nel Turkestan dove ci fecero
lavorare nei campi di cotone. Lì ci potemmo nutrite di tartarughe e di rane
che infestavano i canali di irrigazione.
- E il suo inseparabile amico Bruno Ocri di Feltre?
Arrivati a Tambov, nonostante le mie
suppliche non volle più uscire dalla baracca che gli era stata assegnata, né
volle più alzarsi dal suo giaciglio. La scusa era sempre quella: non aveva
scarponi per poter camminare e così si lasciò andare lentamente al suo
destino. Una mattina in cui lo andai a trovare per l’ennesima volta non
c’era più. I suoi compagni mi dissero che era morto nella notte e che
avevano già provveduto a portarlo via.
-Quando rientrò in Italia?
Nel dicembre 1946.
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Questo è quanto ricorda ancor oggi il
caporalmaggiore Andrea Marciano, uno dei pochi fortunati, tornato incolume
dalla campagna di Russia e dall’inferno della prigionia. La Julia, che per
un mese aveva tenuto valorosamente il fronte, perse in ben 5 mesi di guerra
7280 uomini tra morti e dispersi (dati ricavati dal libro “I ragazzi del
Don” di Andrea Garatti).
Il generale Eibl, comandante delle
truppe tedesche nel settore della Julia (morì durante la ritirata per lo
scoppio di una bomba; cattolico, prima di morite, chiese l’assistenza dei
conforti religiosi) si era più volte espresso con questa frase e proposito
degli alpini: “Mende Panzer sind die italienische Gebirgsjager (i miei carri
armati sono gli alpini italiani). Ma il riconoscimento maggiore del valore dei
nostri soldati venne dallo stesso nemico che subì a causa di questa guerra le
più pesanti perdite di vite umane di tutto il secondo conflitto mondiale.
Nel bollettino n. 630 emesso per conto del Comando Supremo russo, radio Mosco l’otto febbraio precisò: “Soltanto il Corpo d’Armata Alpino italiano deve considerarsi imbattuto sul suolo di Russia”.
Giuseppe Perin