Storie dei nostri veci |
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ANTONIO GRANZIERA |
Dicembre 1997
E' un pomeriggio d’autunno, di quest’anno, uno di quei giorni che ti invita a rinchiuderti
in casa, o al massimo a far visita a qualche amico, per scambiare qualche
parola, o far una partitina a carte, gustando castagne arroste, sorseggiando
dal bicchiere del buon vino.
Neanche a farlo apposta è
il giorno di San Martino: il detto “Estate di S. Martino “ è smentito,
poiché una densa foschia avvolge case e campi, mentre la pioggia incessante
bagna le sparse foglie ingiallite.
Vado a trovare un Reduce
di Russia, che conosco da molto tempo, ma che mai mi ha parlato della sua
campagna di Russia. E’ Antonio GRANZIERA di San Pietro di Feletto, classe
1919.
A ricevermi è la sua cara
moglie Antonietta, la quale mi dice. “Toni l’è andà a darghe da magnar
ai conici, el vien subito”. Passa qualche istante, ed eccolo arrivare, con
la sua calma. Un breve saluto, poi ci sediamo in una saletta dove spicca un
bel caminetto con la rotonda. Toni invita la moglie a prendere una bottiglia
del suo “prosecco”.Dopo un breve preambolo,
lo invito a raccontarmi qualche cosa della sua naja, soprattutto delle sue
disavventure di guerra. Toni è di poche parole,; per levargliele dalla bocca
bisogna insistere.
Beh, son qua anca mi vivo
per miracolo, come tanti altri miei compagni, ma i pì i ze restai là”.
Toni è il più anziano di
quattro fratelli, ha sempre lavorato la terra a mezzadria, ora fa qualche
lavoretto, tanto per tenersi in movimento. Qualche anno fa si è costruito una
bella casetta.
Tornando alla naja, Toni
mi racconta che era stato chiamato sotto le armi nel febbraio del 1940,
presentandosi nella Caserma del 3° A.M. “Gruppo Conegliano” ad Osoppo.
Dopo pochi mesi il reparto
partì per il fronte greco-albanese: e tutti sappiamo com’é andata in quei
tristi Paesi: la miseria, la sporcizia, la fame ecc... Fu l'inizio, anche per
Toni, di quei quasi tre anni di sofferenza, di tragedie e di morte.
All’inizio del ‘42 il
suo reparto partì per la Russia. Egli mi parla del lungo viaggio, della
tremenda odissea in terra di Russia. La sua memoria non è perfetta, è un
po’ latente; ricorda di esser giunto a ROSSOSCH, e altre località, dove
conobbe il ten.col. Rossotto, il cap. Baldissone. Ricorda quando i carri russi
accerchiarono lo schieramento italiano, quando sotto il tiro incessante del
nemico dovettero ripiegare verso ovest, con l'obiettivo di raggiungere
NIKOLAJEWKA.
“Da quel momento - egli dice - è cominciato il calvario del ritorno verso casa,
verso la nostra terra. Il freddo era tremendo, la temperatura era di 40°
sotto zero, i miei piedi cominciavano a gelarsi. Fortunatamente, assieme ad un
sergente maggiore del Friuli ed un artigliere di Trento trovammo dei cavalli
di un reparto di artiglieria e con quelli cominciammo ad incamminarci verso i
confini. Ogni tanto ci introducevamo nelle isbe che incontravamo lungo il
percorso, per scaldarci un po’ e avere una patata calda che le povere donne
russe ci davano generosamente, magari rinunciando loro. A quei tempi - egli
soggiunge - eravamo poveri noi, ma loro erano ancora più poveri. Dentro le
isbe trovavamo tanti compagni di disavventura che rinunciavano a continuare il
cammino del ritorno in Patria, i quali all’invito di aggregarsi a noi,
rifiutavano, aggiungendo che nelle isbe stavano bene, potevano riscaldarsi e
riposare. Penso che molti di loro siano stati fatti prigionieri”.
“Una considerazione che faccio - continua Toni - dobbiamo esser grati alla povera
popolazione contadina della Russia, soprattutto alle donne che, mettendo in
pericolo anche la propria vita, cercavano in tutte le maniere darci quel
pochissimo che avevano “.
Penso che ognuno di noi si
sforzi di comprendere quale sia il senso supremo della vita. Quindi non
dobbiamo avventurarci in labirinti che ci conducono inesorabilmente alla sua
perdita.
Toni Granziera con la fede
in cuore, con l’invocazione al suo patrone S. Antonio e con l’aiuto di un
cavallo, pur con la congelazione di 2° ai piedi, salva la vita, e dopo un
periodo di giacenza nell’ospedale di Brescia, ed un altro di convalescenza,
nella primavera del ‘43, fa ritorno al suo Reparto. Nel settembre del 1943,
la sua lunga odissea ha fine e può abbracciare i suoi cari.
E’ questa una breve,
piccola-grande storia, storia verace di un umile Artigliere-Alpino, una delle
innumerevoli e dolorose tragedie che hanno vissuto gli Eroici nostri Soldati.
Scrisse don Carlo Gnocchi nel suo meraviglioso libro “Cristo con gli Alpini”: «Quello
che conduce inesorabilmente al conflitto è la superbia e l'egoismo delle
nazioni potenti, la cupidigia e l'ottusità dei popoli ricchi, l'odio
artificialmente acceso tra le nazioni e le razze, la sfiducia e l'instabilità
dei rapporti internazionali, l'arbitrio di quelli che governano, l'edonismo
che mina le basi della vita individuale e fa decadere quella delle nazioni, la
prepotenza, l'ingiustizia, la menzogna, l'invidia, la calunnia, in una parola,
tutto il triste corteggio delle passioni e delle colpe umane. Questo e non
altro è il valore vero e sotterraneo che determina le guerre, anche se alla
superficie appaiono ed operano le ragioni della politica, dell'economia e
della diplomazia.
La guerra è un momento di distacco dell'uomo da Dio, come legge morale, e un
temporaneo abbandono degli eventi storici alla logica inflessibile
dell'errore.
Così che la guerra diventa condanna, castigo e redenzione dagli errori dai quali è
originata. Condanna in quanto ne rivela tragicamente l’occulta assurdità,
purificazione in forza dei sacrifici degli uomini e delle cose, redenzione in
quanto può meritare agli uomini di buona volontà un ordine di vita migliore.
In tutti questi arcani rapporti, tra l'uomo e la legge morale, tra Dio e l'umanità,
tra il contingente e l'eterno, chi soffre per la guerra è la vittima che paga
per tutti, rappacifica l'uomo con Dio e riconquista la pace e l'ordine ai
propri fratelli. Come tale, il soldato è un piccolo e umano redentore - dico
redentore pensando al Cristo - perché la legge in forza della quale egli
soffre e muore è la stessa per la quale il Cristo porta e sale la croce: per
gli uomini e per la loro salvezza.
Ecco perché il ferito di guerra e il Caduto ispirano un sentimento grave e
religioso di soggezione, di venerazione e direi di culto, quale nessun altro
ferito o morto comune ha il potere di suscitare. Anch'io, tutte le volte che
ho dovuto chinarmi sullo strazio dei miei feriti in guerra e sul corpo dei
miei morti, mi sono sentito prendere e soggiogare dalla stringente tentazione
di inginocchiarmi a baciare religiosamente quelle ferite e venerare quella
morte inferta per me e per la mia redenzione umana.
Ed ecco la nascosta e istintiva ispirazione della serena maestà e della stupenda
naturalezza con la quale il soldato accetta e sopporta i più duri sacrifici e
le rinunce più gravi. L'anima pura e profonda del popolo arriva a queste
mistiche realtà per diritta e sicura intuizione, anche se inconscia e
inespressa.
Per
questo il soldato è naturalmente religioso. Egli sente chiaramente che, oltre
e al di là degli uomini, Dio è il conoscitore giusto e il rimuneratore vero
del suo sacrificio spesso oscuro. Molle azioni generose possono rimanere
occulte o cadere nell'oblio degli uomini, ma tutto è chiaro ed eloquente agli
occhi di Dio che vede nei cuori. Il sangue versato per la Patria, è una delle
attuazioni più chiare e più alte della sentenza evangelica. «Non c'è più
grande amore di quello che dà la vita per i propri fratelli».
Non abbiamo forse valore
se non per le nostre sofferenze, ed ecco perché dobbiamo essere riconoscenti
a chi ha sofferto e soffre per un mondo migliore, ed essere sempre disponibili
a contribuire ad alleviare le tribolazioni degli altri.
Renato Brunello