Storie dei nostri veci |
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ANTONIO PADOIN |
Settembre 2012
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Era l'11 agosto 1943 quando partimmo con la tradotta da Udine per andare al
fronte, quello Russo.
Scendemmo a Jsium sul fiume Donez, e dopo diverse marce percorrendo circa 300
chilometri arrivammo dove era situato il campo del Comando delle tre Brigate
Alpine italiane (Julia, Tridentina e Taurinense) che ci dispose in prima linea
sulla sponda del fiume Don assieme a truppe Tedesche e Ungheresi.
Sebbene in prima linea tutto inizialmente sembrava calmo, il 16 gennaio 1943
a seguito della disfatta di Stalingrado ci fu ordinato di ripiegare, ma eravamo
già circondati dalle truppe corazzate russe.
Il clima era rigidissimo più di 30° sotto lo zero. I russi ci incalzavano
continuamente con i carri armati, gli aerei e le forze terrestri. Durante la
ritirata, ferito e con i piedi semi-congelati ebbi la fortuna di vedere un'
“isba”. Entrai per riscaldarmi i piedi al fuoco e per fortuna lì trovai una
donna, che, viste le mie intenzioni, mi fermò e mi massaggiò i piedi con la neve
salvandomi da morte certa per cancrena.
Il 26 gennaio 1943 con l'ultima battaglia, quella di Nikolajewka e il sacrificio
di tanti alpini, riuscimmo ad aprire un varco nelle linee nemiche e a ripiegare
verso Waluiki, ma il giorno dopo fummo attaccati dalla cavalleria cosacca che ci
intimò la resa (o la morte) e ci fece prigionieri.
Prigionieri dei russi! Comincia il calvario!
Chi poteva camminare doveva incolonnarsi senza uscire dalla colonna o fermarsi,
altrimenti veniva ucciso. Eravamo italiani, tedeschi, ungheresi, una colonna
lunga chilometri. Questa fu la marcia del “Dawai” che per me durò undici giorni
e dove vidi chi era assieme a me morire di fame, di congelamento, o sotto le
raffiche dei mitragliatori russi perché magari si chinava a raccogliere una
patata gettata per compassione dalle donne dei paesi dove transitavamo.
Con la forza della disperazione, assieme ad un altro alpino decidemmo di
buttarci fuori dalla colonna in mezzo alla neve e fingerci morti, tanto lì di
morti ce n'erano ad ogni passo. Così riuscii a fuggire e mi aggregai ad altri
sbandati. Eravamo in 150 ma in meno di un mese rimanemmo una ventina.
I cittadini russi sebbene mossi a compassione per il nostro stato non potevano
aiutarci perché, se venivano scoperti, venivano passati per le armi. Non ci
restava altro che cercare qua e la qualcosa da mangiare e fu così che un giorno
fui scoperto, assieme ad un altro fuggitivo da un commando russo. Il sergente
che lo comandava ci fece adagiare in una buca e prese la pistola: era arrivata
la nostra ora. Senza più speranze attendevo il colpo di grazia quando sentii in
lontananza una voce che diceva: “non sparare portali indietro”.
Dopo un estenuante interrogatorio capirono che eravamo soltanto dei poveri
disperati mossi dalla fame e ci portarono nel campo di Serjeiefka.
Di nuovo prigioniero dei russi!
Lì i morti venivano tirati fuori ogni giorno a decine e ammucchiati all'aperto,
sembravano grandi cataste di legna semicoperte dalla neve. Le donne russe li
guardavano con le lacrime agli occhi.
Successivamente ci spostarono al campo di Podgornoje: niente di diverso, fame,
stenti e morti.
Il 25aprile 1943 chi poteva camminare fu trasferito al campo di Butirlinofka
dove di notte seppellivamo i cadaveri in fosse comuni e li trasportavamo con
carrette a 10 per volta.
Sul finire del maggio 1943 stipati su carri bestiame sigillati partimmo per
destinazione ignota. Il viaggio durò 8 giorni. Ogni mattina le guardie mongole e
siberiane dopo averci portato qualche tozzo di pane secco e un po' di pesce
salato, ci chiedevano da fuori: “quanti morti?” e noi dentro al vagone sigillato
rispondevamo: “3 o 4 o 5”. “Pochi” ci rispondevano le guardie stizzite.
La destinazione ignota era Arsk. Finalmente qualcuno si prese cura di noi
concedendoci quel minimo di dignità umana, con disinfestazione dai pidocchi,
bagno, barba e capelli.
Dopo tre mesi ci trasferirono presso i campi di concentramento di Elabuga.
All'inizio ci trattarono bene, dopo però, quando alle richieste dei commissari
politici russi di arruolarsi con il loro esercito noi rispondemmo picche, ci
trasferirono nel reparto punitivo. Lì si lavorava duro, d'inverno con
temperature a – 40 dovevamo andare nel bosco a far legna con la slitta trainata
da 6-8 di noi a 15 chilometri di distanza; d'estate ci impiegavano per la
raccolta del fieno dall'alba al tramonto.
Alle fine del 1945 dopo 54 giorni di viaggio i russi ci consegnarono agli anglo
americani.
Era finita! Potevo tornare a casa, libero!
Questa è in sintesi l'odissea durata 40 mesi in terra di Russia, di Antonio
Padoin classe 1921; dell' 8° Reggimento Alpini Terza Divisione Julia.
Tornato a casa, riprese la sua attività di imprenditore agricolo vicino alla sua
famiglia che fu costretto ad abbandonare per servire la Patria.
Spesso incontrava le scolaresche del Quartier del Piave per raccontare la sua
storia. A chi gli chiedeva come avesse potuto resistere a tante atrocità diceva:
“io sono stato miracolato, la mia fede mi ha aiutato a sopravvivere. Forse il
disegno di Dio era quello che raccontassi alle generazioni future a cosa porta
realmente la guerra e per questo che cerco di far capire ai giovani che è anche
loro dovere far di tutto per combattere la guerra in ogni sua forma con armi di
pace.”
Ora Antonio Padoin non c'è più, è andato avanti il 4 febbraio di quest'anno,
alla venerabile età di 90 anni. Restano però le sue storie che forse era
destinato a raccontare, per contribuire ad un idea univoca di pace.
Pier Fernando Dalla Rosa