Storie dei nostri veci |
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SON TORNATI IN 1064 E SENZA FANFARE |
giugno 2002
Riporto un
articolo pubblicato sul giornale “Avvenire” del 26 ottobre 2001. È un
articolo che mi ha profondamente colpito e procurato molta amarezza e che la
dice lunga sul senso patriottico degli Italiani e delle nostre Istituzioni.
Leggetelo con attenzione e vedete se non c'è materia sufficiente per essere
sconsolati e pessimisti sul futuro della nostra povera Italia.
L'altro
ieri sono tornati in millesessantaquattro. Cinquantasei anni dopo la fine della
guerra, millesessantaquattro soldati italiani partiti con l’Armir, e
massacrati sul Don, sono tornati a casa. Su un C130 dell’aeronautica, in bare
accolte all’arrivo con gli onori militari. Cosseria, Pasubio, Ravenna, Torino,
Celere, Sforzesca, Julia, Cuneense, Tridentina i nomi delle loro divisioni,
oramai nomi da libri di storia, da tempo caduti nell'oblio.
Con questi mille, sono 7924 in tut-to i caduti italiani restituiti dal 1991,
quando, sciolta l’Urss, si aprirono gli archivi militari. Pochi, se si pensa
che dei 230 mila partiti poco più della metà tornarono a casa.
Ma intanto
ieri sono tornati, in mille. Quasi non se n’è parlato sui giornali, che hanno
pagine gonfie di una nuova guerra, e anche degli insulti alla camera, del Grande
Fratello e della nostra insostenibile leggerezza quotidiana.
Ma, benché sia passato tanto tempo, questo ritorno qualche parola la merita
ancora. Pensiamo alle foto in bianco e nero dei treni che portarono quei ragazzi
al fronte; a come, affacciati ai finestrini, sembravano forti e fiduciosi nel
salutare le fidanzate e le mogli, e nel promettere che sarebbero tornati. E a
noi che sappiamo in quale inferno venivano mandati - sprovvisti di tutto e male
attrezzati - quei sorrisi baldanzosi, quella spensieratezza ci trafiggono. Si,
sarebbero tornati: quasi sessant’anni più tardi, morte le mogli e magari
anche i figli. Inutilmente e lungamente attesi, “dispersi” nella steppa
sconfinata. Quanto a lungo hanno aspettato, quelle mille fami- glie, spiando
ogni giorno l’arrivo del postino, e poi; con gli anni, sognando magari che
quel figlio avesse scelto di rimanere laggiù, che si fosse rifatto una vita e
la stesse vivendo, lontano?
Sono tornati, grazie, spesso alla pietà di un cappellano, che tra le mani dei
morti metteva una bottiglia chiusa, con un nome e un cognome. Perché, mentre
nella carneficina feroce le fosse comuni riducevano i corpi a “roba” («Il
nulla che riduce l’uomo a cosa», scriveva Simone Weil), i nostri preti
sapevano bene quanto valgono i resti di un morto, quanto infinitamente prezioso
è un nome su una tomba, visto che anche da morti siamo persone, non massa.
Sono tornati, e hanno avuto gli onori militari, com'era doveroso.
Ma forse valevano anche qualche riga sui giornali, qualche parola in tv - almeno
lo spazio dedicato alla bagarre a Montecitorio.
Quei ragazzi partiti credendo di servire la Patria, mandati al macello, ingoiati
dal nulla, questa “divisione” di fanti e di alpini tornata a casa tanto
tempo dopo, qualche parola l’avrebbe meritata.
Specialmente oggi, mentre si parla di guerra, mentre si ipotizza di partire per
la guerra, il ricordo di questi millesessantaquattro, e dei tanti altri che non
sono mai tornati, darebbe ai nostri giorni divisi fra paura, orrore e leggerezza
lo spessore della memoria.
La coscienza di appartenere ad un popolo - che non è solo, come amiamo
ripeterci, fatto di furbi e di cialtroni.
Marina Corradi