Storie dei nostri veci |
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LA BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO |
L'offensiva austroungarica si infranse
dopo cinque giorni di violenti combattimenti.
L'artiglieria, le mitragliatrici, gli assalti, i sacrifici e il Piave rosso di
sangue
" Un minuto esatto dopo le tre,
dietro le nostre spalle, non meno distante, tuonò una cannonata. Questo colpo,
unico e isolato, rimase sospeso con la sua eco che rimbalzava da una vetta
all'altra per un tempo che a tutti parve infinito. Pochi secondo dopo,
improvvisamente, come se tutta la volta celeste, franasse, con un fragore
spaventoso, l'oscurità, s'empì delle furiose fiamme gialle vomitate da
seicentosedici bocche da fuoco, inondando l'alba ancora incerta d'un fantastica
luce infernale".
Così Lajos Zilhay, nel suo romanzo autobiografico "Il disertore",
inizia il racconto della Battaglia del Solstizio che doveva segnare una decisiva
svolta nella guerra che durava da quasi tre anni. Vista dall'altra parte, da un
grande narratore coinvolto suo malgrado in una tragedia che gli pare doppiamente
assurda in quanto nulla ha a che fare con l'uomo come lui lo intende e perché
in nessun caso la sua patria, l'Ungheria, può trarne giovamento, quella che per
le divisioni italiane è stata una grande, vittoriosa battaglia d'arresto,
assume i toni vasti e terribili di quegli scontri tra popoli in cui
inconsciamente i combattenti delle due parti lottano con accanimento nella
convinzione che sarà l'ultimo.
Il comando supremo austriaco aveva preparato con ogni cura l'offensiva, conscio
che dal suo esito dipendeva la sorte degli imperi centrali. Anche il battaglione
in cui era incorporato lo Zilhay era stato fatto affluire dalla Galizia nelle
immediate retrovie del fiume Piave, a Refrontolo. I vecchi del paese ricordano
ancora quei soldati, che per ordine del comando giacevano nudi sull'erba
calpestati nella rada ombra dei gelsi durante i primi caldi pomeriggi di giugno.
Da mesi il rancio della truppa era assolutamente insufficiente tanto che il peso
medio della truppa toccava a malapena i cinquanta chili. Poi, improvvisamente,
il 12 giugno, venne distribuita un'abbondante razione di carne di cavallo. Così
nei giorni successivi. La sera del 14, lungo i sentieri dei colli che da
Refrontolo conducono al Tombola sopra il Piave, il battaglione andò a prendere
posizione in attesa dell'attacco. Nel settore tra Falzè e Colfosco, era stata
raccolta una possente massa d'urto con sui si riteneva possibile far saltare la
cerniera che saldava le difese italiane tra il Montello e la pianura.
Protetti dal fuoco ininterrotto delle cinquecento bocche da fuoco d'ogni
calibro, tra la foschia che si levava dalla acque e il fumo acre degli scoppi,
furono gettati i pontoni e i primi reparti cominciarono a varcare il fiume.
L'artiglieria italiana, che durante le prime ore di quell'assalto violento ed
improvviso aveva taciuto, cominciò a rispondere con estrema energia e le
mitragliatrici celate nelle caverne del Montello aprirono il fuoco sui reparti
che attraversavano il fiume. Ognuno voleva essere il primo a precipitarsi sulle
posizioni nemiche. Racconta lo Zilhay. Non era il delirio dell'eroismo che li
spingeva, ma soltanto il desiderio tormentoso ed impaziente di superare al più
presto ciò che li separava dal loro destino, ciò che era inevitabile e a cui
nessuno sarebbe scappato.
Sopra ed intorno, ruggiva il gigantesco duello d'artiglieria, tanto che le
raffiche delle mitragliatrici si percepivano appena.
Ma il loro fuoco era talmente micidiale che il soldati, superato il fiume,
s'erano adunati nella sterpaglia ai piedi del Montello, non curandosi
dell'ordine, si erano scagliati, un quarto d'ora prima del tempo stabilito,
contro i ricoveri avversari e li avevano fatti ammutolire. Iniziava così
l'assalto al Montello, ove in ottemperanza ad un disegno tattico predisposto dal
nostro comando, gli avamposti ripiegavano sulla "linea della corda",
sul versante di mezzodì. Qui giunti, i reparti austro-ungarici, defilati alla
vista delle centrali di tiro delle loro artiglierie, non avrebbero più potuto
ottenere un'efficace protezione, mentre sarebbero stati più facile bersaglio di
quelle italiane. Tale era il piano della VIII Armata che arrischiò di saltare
per l'incredibile spinta offensiva degli attaccanti e per la scarsità delle
riserve da gettare nella lotta per tamponare le falle apertesi da Casa Serena a
Nervesa. Nonostante il violento fuoco di distruzione e di sbarramento
dell'artiglieria italiana, che sistematicamente distruggeva i ponti di barche
che gli austriaci gettavano durante la notte, nonostante l'intervento
dell'aviazione, i rinforzi continuavano ad affluire sul Montello, ma a prezzo di
sanguinose perdite. Logorata da quattro giorni di lotta durissima, la possente
massa d'urto, s'afflosciò, s'infranse e non appena le divisioni italiane
passarono al contrattacco chiudendola a tenaglia tra lo sperone più a nord del
Montello di fronte a Falzè e Nervesa, cercò in fretta di guadagnare la riva da
cui era partita.
Il 19 giugno, la Battaglia del Solstizio era terminata. Decine di migliaia di
morti, d'ambo le parti, coprivano letteralmente le doline del Montello,
giacevano negli acquitrini, sulla grava, L'ultima visione della battaglia,
secondo lo Zilhay, ha avuto dell'apocalittico. L'acqua del Piave era veramente
rossa di sangue, il Piave sotto i colpi dei pezzi di grosso calibro che facevano
saltare i pontoni con il loro carico di uomini, sbavava furibondo sollevando
colonne di schiuma, come se volesse scrollarsi di dosso quei carichi inusitati.
I superstiti cogli occhi sbarrati , curvi sotto il peso immenso del terreno e
della tragedia, come volpi braccate e senza scampo, cercavano un nascondiglio
qualsiasi pur di tirarsi fuori da un mondo del quale avvertivano tutta l'assurda
mostruosità.
LA SETTIMANA DECISIVA
L'ansa che il fiume Piave forma tra
Falzè e il Montello, e che rappresenta uno dei punti di minore larghezza del
fiume, era subito apparsa alle truppe austroungariche la zona di più agevole
passaggio per l'ulteriore avanzata verso Treviso, in considerazione del fatto
che i ponti erano stati fatti saltare quale ultimo disperato atto della ritirata
del nostro esercito.
La concentrazione dei reparti a Falzè di Piave comportò inevitabilmente, fin
dal giorno del loro arrivo, la reazione delle artiglierie italiane appostate sul
Montello, ma la consistenza delle truppe austroungariche andò ugualmente
crescendo nei mesi successivi e, il 15 giugno 1918, l'attacco al saliente del
Montello - preceduto da forte preparazione di artiglieria - avvenne infatti
prevalentemente dalla zona di Falzè di Piave, con 31a Divisione stanziata nel
tratto tra Villamatta e Falzè, e la 13a Divisione posta tra Falzè e Casa
Marcadello. E' noto che dette direttrici offensive (oltre a questa operata più
a sud, dalla 17a Divisione a.u. da Casa Marcadello e Mina) consentirono la
penetrazione sul Montello che venne dapprima contenuta e poi annullata con
l'impegno delle nostre truppe validamente sostenute dall'artiglieria e
dall'azione aerea.
Sebbene batt8uti (nella Battagli del Montello gli attaccanti ebbero fuori
combattimento, tra morti, feriti e prigionieri, circa 250.000 uomini; a 92.000
assommarono le nostre perdite) gli austro-ungarici si consolidarono nuovamente
nella zona di Falzè di Piave, rendendo più facilmente contrastabile
l'offensiva italiana prevedibile anche se non ancora databile.
La settimana decisiva ebbe inizio il 24 ottobre (inizialmente) era stata fissata
la data del 18 ottobre poi rinviata a causa del maltempo che aveva ingrossato le
acque del Piave, circostanza che consentì di far giungere sul Grappa altri
quattrocento pezzi di artiglieria) dopo i tentativi che gli austro-ungarici
avevano attuato in luglio contro le pendici sud del Sasso Rosso e in agosto
nell'intento di riprendersi l'isolotto a sud-est delle Grave di Papadopoli, e
ancora in settembre contro quota 703 di Dosso Alto; e i concreti buoni successi
italiani sull'Altopiano di Asiago, nella regione settentrionale del Grappa,
nelle zone del Tonale, e nel settore dell'Adamello dove gli alpini strapparono
al nemico il monte Stabel e rioccuparono il Corno di Cavento.
Il rinvio dell'azione, imposto dalla piena del Piave, fu provvidenziale, perché
rese possibile alla nostra 4a Armata - potenziata dai 400 nuovi pezzi - di
trasformare l'azione dimostrativa in un attacco a fondo sul Grappa (pur
rimanendo preminente il piano di attacco sul medio Piave). La lotta fu
indubbiamente durissima, tale da indurre il Comando Supremo austriaco a credere
che l'intendimento italiano fosse quello di voler sfondare tra il Brenta ed il
Piave, per cui trasferì affrettatamente non soltanto i rincalzi che si
trovavano nella Valsugana e nella conca di Fonzaso, ma pure quelli del Bellunese;
nove divisioni vennero subito impiegate sul Grappa, dove la battaglia divenne
furibonda particolarmente sull'Asolone, il Pertica, il Solarolo - ovunque
affrontati con leggendario valore dalle nostre truppe agli ordini di Gaetano
Giardino - ma la gran parte dei rinforzi austriaci rimase inattiva e
imbottigliata nelle valli retrostanti rendendo anzi estremamente difficile sia
il tempestivo trasferimento al Piave come pure la ritirata che avrebbero dovuto
attuare pochi giorni dopo.
Intanto, lungo la destra del medio Piave, nostri reparti vennero fatti affluire
senza che dalla riva opposta si rendessero conto dell'entità della manovra. Vi
vennero trasportate persino migliaia di barche grandi e piccole, prelevate dalla
laguna veneziana, per l'eventuale attraversamento di reparti prima della
costruzione dei ponti; vennero approntati quattro chilometri di passerelle
tubolari di rapido gittamento; i Pontieri - ammirevoli protagonisti di quei
giorni - vennero dotati di materiali per la costruzione di venti ponti
regolamentari, sorretti da barche, ciascuno della lunghezza di 320 metri.
L'impresa era comunque estremamente difficile per l'impetuosità delle acque e
per la sicura reazione che l'avversario avrebbe scatenato.
Pioveva a dirotto in quella notte tra il 26 e il 27 ottobre.
La prima testa di ponte venne conseguita in località "ponte del Molinetto"
da tre battaglioni alpini della 12a Armata, dal 107° reggimento francese e da
buona parte del XXVII corpo del gen. Di Giorgio; sebbene contrastati, i nostri
si portarono verso San Vito, Madonna di Caravaggio e Ca' Settolo raggiungendo la
Montagnola di Valdobbiadene fortemente presidiata dal nemico.
Altra testa di ponte (con due divisioni d'assalto e la brigata Porto Maurizio)
venne formata tra Vidor e Falzè, ed altra alle Grave di Papadopoli.
In particolare, gli Arditi della 1a Divisione d'assalto fecero oltre novemila
prigionieri e catturarono 51 cannoni; ma entro la sera tutti i ponti
faticosamente gittati per realizzare le teste di ponte in direzione di
Valdobbiadene e di Falzè risultarono distrutti. I nostri reparti si trovarono
quindi isolati, senza possibilità di ottenere rifornimenti e rincalzi, mentre i
nostri aerei segnalavano l'avvicinamento di consistenti rinforzi austriaci verso
la piana della Sernaglia. Indietro non si poteva tornare, e la lotta si fece
disperatamente decisa, specialmente per l'azione di comando del gen. Oreste De
Gasperi che proprio a Falzè di Piave meritò la medaglia d'oro al valore
militare.
Notevole alleggerimento alla pressione avversaria venne recato
dall'attraversamento, sugli unici superstiti ponti alle Grave di Papadopoli, del
corpo di riserva che il gen. Caviglia spinse audacemente in direzione di
Susegana e Conegliano.
Dal lungo fronte esteso dai monti al mare il balzo del nostro Esercito fu
inarrestabile, e il bollettino di guerra del 3 novembre poté annunciare che
"le nostre truppe hanno occupato Trento e sono sbarcate a Trieste. Il
tricolore sventola sul Castello del Buon Consiglio e sulla Torre di San
Giusto".
ALCUNI DATI
La provincia di Treviso ebbe - dal 1914
al 1920, nel periodo comprendente il riaccendersi della guerriglia in Libia e in
quello, perdurato all'armistizio della guerra europea, dell'occupazione in
Albania e Macedonia - 9338 soldati caduti; circa un decimo - e precisamente 928
- erano Soldati che portavano la penna nera. Si tratta della rilevazione più
aggiornata e che presenta una probabilità di errore che non raggiunge, per
omissione, l'uno per cento.
Non si conosce il numero degli alpini arruolati in provincia di Treviso, ma il
reclutamento - limitato alla fascia montana e collinare - è comunque stato
assai meno elevato rispetto a quello della guerra 1940-43.
Un calcolo approssimativo può venire fatto per il numero dei mutilati e feriti.
Non è lontana dalla realtà la valutazione di almeno mille alpini e artiglieri
da montagna rimasti mutilati od invalidi, e di circa millecinquecento feriti.
La mancanza di perfette statistiche non deve stupire. Anche dopo oltre mezzo
secolo non si conosce il numero esatto dei nostri Caduti della Grande Guerra ed
infatti, oltre a parlare spesso dei "Seicentomila", le citazioni fanno
oscillare l'entità dei Soldati morti fino al numero di settecentomila.
Le ricompense al valore militare conferite a trevigiani combattenti nella guerra
1915-18 sono rappresentate da 10 onorificenze dell'Ordine Militare di Savoia, 3
Medaglie d'oro. 464 medaglie d'argento, 765 medaglie di bronzo, 338 Croci al
valore militare ed Encomi solenni; il totale di 1570 decorazioni - escludendo le
onorificenze dell'ordine militare - equivale al 12,41 per cento della
complessiva entità delle decorazioni conferite per detta guerra a militari
italiani ed alleati.
La guerra è una interminabile strada segnata di lacrime, di sangue, di sofferenza.
Dopo ottant'anni quante cose sono
cambiate!
Un velo di silenzio avvolge ogni cosa; i figli dei figli poco o nulla ricordano;
i superstiti ripetono cose incomprensibili; e la storia dell'uomo fatta e
segnata di lotte fratricide, di vittorie e di sconfitte!
Ma alla fin fine è l'uomo lo sconfitto!
Siamo noi, se da queste terribili lezioni non abbiamo imparato a misurare la
storia non più della vittoria su fratelli, ma su noi stessi, se non abbiamo
sradicato il nostro egoismo alimentato dal benessere e dall'arrivismo, se
abbiamo posto le premesse per nuove guerre. Il Piave ancora mormora, è un
monito, il ricordo che ci avverte.
Valga anche questa data, oltre a ricordare i Caduti per un ideale, ai quali va
tutta la nostra ammirazione e riconoscenza, a sollecitare in tutti il desiderio
di pace ed essere veramente costruttori di pace.
Renato Brunello