Vecchia Conegliano e dintorni |
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GIOVANNI DA DALTO |
Giovanni Da Dalto, figlio di Antonio, era nato a Castello
Roganzuolo il 17 gennaio 1897. Gemello di Giovanna, la madre aveva partorito
cinque figli in tre anni (a Castello Roganzuolo succedeva anche questo). Nella
sua fanciullezza si distinse per essere il più vispo nella grande nidiata dei
Da Dalto ed i vecchi sottolineavano la sua esuberante vivacità commentando:
« l'è pezho de 'n diaul ». Doveva averne combinata una di particolarmente
grossa quella volta che per castigo lo avevano escluso dalla cena. Nascosto
dietro alla porta, lui aspettò che la polenta venisse sartada 'n tel fondal
e, quando la nonna si girò un attimo per riporre la caljera, con una mossa
fulminea s'impossessò della polenta ancora fumante e scappò in cortile,
rincorso da coloro che, già seduti a tavola, rischiavano di saltare la cena.
A dodici anni Giovanni smise di andare a nidi e seguì il
padre in Germania. "Seguì il padre" significa che camminò a fianco
della carriola del padre fino in Germania. Per quanto incredibile possa
sembrare, nei primi anni del 900 gli uomini andavano a cercare lavoro
all'estero portandosi la carriola che, da mezzo di trasporto per le poche cose
che si portavano appresso, diventava poi irrinunciabile strumento di lavoro.
Erano anni di crisi e gli uomini del paese non temevano le lunghe distanze,
percorse interamente a piedi, per guadagnarsi il pane. Lavoravano come
stagionali nella costruzione di strade e gallerie.
Il fenomeno dell'emigrazione stagionale in Germania si
ripeterà cinquant'anni dopo con identiche modalità per quanto riguarda i
tempi: partenza in primavera e rientro con la brutta stagione. Ma dalla nostra
zona non partiranno, verso i ricchi länder tedeschi, braccianti, scalpellini,
manovali e muratori bensì, a
bordo di fiammanti Mercedes, gli intraprendenti gelatai.
Il solerte Giovanni allora si rendeva utile portando
l'acqua per dissetare gli operai nei cantieri, orgoglioso di guadagnarsi
qualche piccola ma preziosa palanca.
La Grande Guerra quindi vide Giovanni Da Dalto impegnato
in prima linea. Alla disfatta di Caporetto riparò con il suo battaglione al
di là del Piave. Ma in una offensiva di sfondamento dell'esercito
austro-ungarico, nel giugno del 1918 venne fatto prigioniero.
Il drappello dei soldati italiani catturati in
quell'occasione venne indirizzato direttamente nei campi di internamento
germanici. E in questa triste marcia forzata verso la prigionia, destino volle
che Giovanni passasse per Conegliano, dove ricevette, la sera, la visita del
padre e di alcuni fratelli che lo rincuorarono.
La mattina dopo, il cammino riprese sotto il rigido
controllo e i bruschi comandi delle sentinelle di scorta e la colonna dei
prigionieri s'indirizzò per la carrabile che portava a Ogliano.
Quando fu dietro l'ampia curva sinistrorsa ove la strada
sale verso il paese, apparve improvvisa ma non inattesa, nel verde panorama
delle amate colline, la sagoma inconfondibile di una torre merlata: il
campanile della sua chiesa, la Pieve di Castello Roganzuolo. Fu un colpo al
cuore per Giovanni che, prigioniero nella propria terra, si chiedeva dentro di
sé, smarrito, se e quando
avrebbe rivisto la sua chiesa, il campanile, i Casteari.
Il richiamo di quel campanile era troppo forte. Giovanni
era furbo e coraggioso, ma il rischio era grande: sapeva infatti che per chi
tagliava la corda e veniva ripreso c'era il plotone di esecuzione. Gli bastò
però trovarsi vicino ad un varco nella siepe che fiancheggiava la via: un
attimo, un balzo. E sparì nella vegetazione.
Poi corse giù per la collina, a rotta di collo, senza
voltarsi, bucando siepi, saltando varchi, tagliando i campi, a capofitto verso
la strada Alemagna attraversata d'un balzo, fino ad infilarsi nella fitta
boscaglia che fiancheggia il torrente Menarè Vecio. Qui si fermò a
riprendere quel fiato che aveva trattenuto nello sforzo di concentrare tutta
l'energia nella fuga.
Erano passati pochi attimi e già la guerra per lui era
distante anni luce.
Gli sembravano infinitamente lontane le urla disumane dei
compagni dilaniati dalle granate negli attacchi suicidi sul Carso, dopo essere
andati alla morte ubriachi di cognac scadente, bestemmiando Dio, il re e
Cadorna; lontani i giorni della ritirata da Caporetto, giù per i pendii pieni
di fango e di cadaveri, e della tragica e disordinata fuga verso il Piave, con
il fiato del nemico addosso, quando bisognava camminare nei campi acquitrinosi
e nei fossati, dal momento che sulla strada non si poteva, tanti erano i
soldati e i civili, quando il ponte sul Tagliamento sembrava dovesse crollare
da un momento all'altro sotto il peso della folla di sbandati e disperati, e
dall'altra parte c'era un generale che urlava vigliacchi e vermi ai
commilitoni che non avevano il fucile, prima di metterli in riga davanti al
plotone di esecuzione.
Il Menarè Vecio era asciutto, ma ancora fresco di
fronde. Il trillo improvviso di un'armoniosa cinciallegra lo predispose ai
profumi intensi dei fiori selvatici e s'accorse che quello che sembrava
silenzio infinito era in realtà l'impasto dei mille suoni di un giugno
incantevole.
E osservando le tinte variegate dei campi e della
vegetazione estiva, gli parve di scoprire solo allora come la natura non
avesse mai interrotto i suoi ritmi, dissociandosi da quella guerra nella cui
irrazionalità e ferocia si erano invece dissolte le leggi di Dio e degli
uomini.
Poi si mosse guardingo, camminando vicino alle siepi,
pronto ad eclissarsi al primo rumore. La sera prima il padre gli aveva
raccontato che il paese era pieno di Tognin e Bosgnachi. E lo constatò di
persona quando, arrivato nei pressi del bosco del Vallon, poté osservare,
dall'intenso movimento di carri e soldati, che borgo Gradisca era un cantiere
di attività. Ma fu anche felice di scoprire che la sua chiesa ed il campanile
non erano stati coinvolti nella distruzione. Nella marcia verso Conegliano del
giorno prima, osservando le scene di devastazione e le macerie, aveva potuto
constatare che quasi tutti i campanili erano stati squarciati dai
cannoneggiamenti del nostro esercito oltre il Piave e molte chiese erano
spesso state scoperchiate dalle bombe o ignobilmente ridotte a camerate per la
truppa, se non addirittura a stalle per i cavalli.
Non riusciva però ad individuare la sagoma dei bronzi
nella cella campanaria. Infatti le campane non c'erano più. Gli occupanti non
si erano accontentati di spopolare i cortili, prosciugare le cantine e
svuotare le stalle: perfino le voci che da sempre, nei paesi, annunciavano le
feste, le agonie e i vespri, erano state spente. Ridotti i campanili a torri
silenziose, le campane, strumenti di pace, erano state calate e fuse per farne
ordigni di morte.
Si legge nella Cronistoria di Castello che il 24 dicembre
del 1917 era stato proibito a Don Pizzinato di suonare le campane. Dopo cinque
giorni i Tedeschi avevano minacciato di portarle via, il 20 gennaio del 1918
avevano portato via la piccola e la mediana, il 30 maggio la grande. Quando
furono buttate giù dalla cella campanaria, la grande e la mediana si erano
spezzate, la piccola era invece stata spaccata a colpi di mazza, essendo
rimasta intatta nell'urto con il suolo. Questa campana era nata cinquant'anni
prima fondendo oggetti in metallo raccolti tra i parrocchiani, ed i riverberi
d'oro che provenivano dai cocci sembravano rendere ancor più grande lo
scempio. Gli anziani presenti ricordavano infatti che per nobilitarne il
suono, e renderlo più vivo, erano stati fusi nella colata anche gli anelli
offerti dalle spose del paese.
Erano invece state salvate le due piccole campane della
Chiesetta di San Martino, messe al sicuro nell'acqua nera della vasca
adiacente alla canonica.
Scorgendo la mura del cimitero, Giovanni gioì
nell'immaginare che la sera dei morti avrebbe mangiato le castagne assieme ai
suoi. Se il ricordo degli affetti che il camposanto custodiva significava
riconciliazione con il paese ed il patrimonio delle sue consolidate
tradizioni, dopo lo strappo brusco e lacerante imposto dagli eventi, il pensiero delle castagne era la conseguenza dei
lancinanti morsi della fame che, dopo mesi di rancio immangiabile, ora si
riproponevano più intensi e meno restii a spegnersi.
Aspettò le tenebre per presentarsi ai genitori. Gioia e
commozione per l'inatteso arrivo lasciarono subito il posto a viva
preoccupazione: il nemico da cui era scappato era lì, in casa. Dalle finestre
del tinello uscivano masse di fili telefonici e l'andirivieni di soldati e
graduati era continuo: proprio presso la sua abitazione era infatti insediato
il centro trasmissioni della fanteria austro-ungarica.
Giovanni dovette così adattarsi allo stile di vita di
... latitante in casa: durante il giorno si eclissava nella campagna, la notte
dormiva nella gripia della stalla.
In seguito riuscì anche a far amicizia con un tenente
ungherese. La sua esperienza di lavoro in Germania gli consentiva infatti una
certa familiarità con la lingua tedesca.
Accade, per fortuna, che non tutti siano disposti a
seguire le irrazionali leggi della guerra: ecco che allora, proprio nelle
guerre, fioriscono episodi di nobile umanità. Il tenente, messo al corrente della situazione, offrì a Giovanni la
sua protezione, e da quel giorno la latitanza di questi divenne meno rischiosa
e più sopportabile.
Dopo qualche mese, a novembre il conflitto finalmente
terminò, con vittoria del nostro esercito sulle forze di occupazione.
Giovanni a quel punto si recò a Conegliano per mettersi a disposizione del
comando italiano e lì, tra i prigionieri, incontrò il tenente ungherese.
Decise allora di presentatosi al comandante. A lui raccontò la sua storia,
della protezione ricevuta, e raccomandò che quell'ufficiale fosse trattato
con il massimo rispetto in quanto persona nobile e degna.
Otto mesi dopo a casa Da Dalto arrivò una lettera da
Budapest: il tenente ungherese manifestava la sua gratitudine per il
trattamento di riguardo avuto nel periodo di prigionia.
***
Nel 1921 Giovanni Da Dalto emigrò in California con la
moglie Giuseppina Spinazzè. Lì è morto nel 1963 senza più aver fatto
ritorno in Italia. Sua moglie ora ha 97 anni vive ancora nella sua casa.
Gianfranco Dal Mas