Storie dei nostri veci |
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GIOVANNI DAL CIN |
Dicembre 2009
Commozione cerebrale, occhio sinistro fuori orbita, braccio sinistro perso, gamba destra morta, paralisi facciale
flaccida, guancia sinistra flagellata, frattura della quarta vertebra lombare. Era un referto medico spietato,
significava morte.
Era il bollettino stilato dai dottori dell'Ospedale di Vittorio Veneto quel 10 settembre 1934 quando Giovani Dal Cin
vi era stato portato praticamente morto.
Il primo ottobre 2009 Giovanni Dal Cin, Nani, ha festeggiato 100 anni.
Quel bollettino ha accompagnato la sua esistenza, per Giovanni è come una giaculatoria, è il suo pater ave gloria
quotidiano.
Aveva 6 anni quando scoppiò quella guerra così tremenda da essere chiamata "granda". E ne compiva 8 quando Todeschi e
Bosgnachi arrivavano a Castello Roganzuolo inaugurando il terribile anno della fame. Ricorda che dentro questa guerra ve
n'era un'altra senza tregua: quella quotidiana per riempire lo stomaco. Confessa che se la nostra popolazione riuscì a
sopravvivere durante l'anno drammatico dell'occupazione, ciò fu dovuto ad un complesso di astuzie. Bisognava aguzzare
l'ingegno per nascondere ciò che altrimenti sarebbe stato requisito. Nella casa in fondo a via Larghe dove i Dal Cin
dimoravano, i Tedeschi erano arrivati più volte portandosi via tutto, ma non si erano accorti che in una specie di
separé oltre la cucina, protetto da cane cargane, i Dal Cin erano riusciti a nascondere una mucca ed una brenta di vino.
Arrivò la chiamata sotto naia e fu una vera novità per Giovanni che viveva di nulla in un paese dove non succedeva
nulla. Alpino della 70° compagnia Cadore, fu nelle caserme di Tai, Pieve, Feltre ed Auronzo, ma l'addestramento lo aveva
portato su tutti i passi dolomitici ai piedi delle nostre montagne, in marce e campi militari estenuanti, con lo zaino
di 40 chili in spalla. Durante una esercitazione nei ghiaioni alle pendici delle Tre Cime di Lavaredo avevano recuperato
il corpo di un soldato tedesco della grande guerra, restituito dal disgelo primaverile. Era stato deposto nella cassetta
delle munizioni e trasportato, a dorso di mulo, ad Auronzo, e quel rientro si era trasformato in un lungo e silenzioso
corteo funebre. Toccava ad una Compagnia di alpini onorare quel caduto con un gesto di pietà, quella pietà che, causa la
guerra, gli era stata finora negata. Giovanni se li ricorda tutti i suoi tenenti, capitani, colonnelli e generali,
tutti, nome e cognome, compreso il sergente Belfiore che lo aveva sorpreso in libera uscita con il colletto della
camicia sbot-tonato. La sbottonatura, consigliata dal tenente medico della caserma, era dovuta ad un livido sul collo.
Ma il sergente non aveva tollerato giustificazioni e lo aveva punito a cento giri di corsa attorno a piazza d'armi.
"lo li faccio, ma lei crepa", era stata la reazione di Giovanni che aveva eseguito la punizione sotto gli occhi
increduli della gente presente in piazza e quelli divertiti di qualche commilitone, ma il giorno dopo aveva chiesto
rapporto al capitano ed il sergente era finito in gattabuia.
E quella marcia su un costone molto innevato del monte Antelao quando il capitano (si chiamava Canin ed era di Milano)
raccomandò il silenzio. Appena l'ultimo alpino fu al sicuro sulla forcella, la Compagnia fu sorpresa alle spalle da un
inquietante fragore e tutti poterono assistere all'irrompere a valle dell'immensa valanga.
Poi un impressionante silenzio, un meraviglioso senso di pace, e tutti gli alpini che guardavano il capitano ...
Arta, era questo il nome della mula condotta da Giovanni, mentre quella del suo amico Armando, Morolagna, si chiamava
Dama. Morolagna era un nome d'arte dovuto al fatto che l'amico andava a caccia di pelli di rumole. Meno fantastico il
soprannome affibbiato al compaesano Antonio Colombera: era il trombettiere della Compagnia (nessuno come lui sapeva
modulare le note del silenzio fuori ordinanza) e per tutti era Toni tromba.
Poi c'era il caporal maggiore Tullio De Vido di Conegliano, magazziniere, bravo e molto buono, ed il sergente maggiore
Giuseppe Ferri di Bergamo. Figure, voci, suoni che ogni tanto ritornano insistenti a ricordargli la sua gioventù.
Ritornano per poi riperdersi. "Tutti morti", ricorda Giovanni ...
Il rancio non era male ed era di gran lunga più abbondante di quello che consumava in borgo Gradisca, sotto le rive
della chiesa, dove la sua famiglia si era nel frattempo trasferita. Ma non era certo di grande qualità. Ricorda,
infatti, che un commilitone, rientrato da una licenza, si era portato una valigia di ogni ben di dio, ma un capitano,
entrato chissà come in camerata, aveva sequestrato salami e formaggi, dicendo che mangiare in camerata era contro i
regolamenti ...
Ricorda poi, con orgoglio, che in 18 mesi di naia, non marcò mai visita una sola volta.
Finito il servizio militare Nani si diede da fare, ed era impegnato alla Montecatini di Bolzano quando successe il
fattaccio.
Ritornava a casa in bicicletta dal capoluogo dell'Alto Adige assieme ai compagni di lavoro quando, sul Fadalto, il
gruppo fu superato da una macchina. Gli amici, conoscendo la sua temerarietà, lo provocarono: "Nani, vedi se riesci a
riprenderla". Giovanni si lanciò all'inseguimento.
Erano rarissime allora le vetture che alzavano nugoli di polvere nelle nostre strade, dove l'asfalto non aveva fatto
ancora la sua comparsa. Ma quel giorno sfortuna volle che fossero ben due le macchine ad incrociarsi sullo sterrato del
Fadalto, e quella che saliva centrò in pieno il nostro Giovanni impegnato nel folle sorpasso.
Un frontale terribile, fu lo stesso investitore, un medico, a caricarlo sulla sua macchina e portarlo nell'ospedale di
Vittorio Veneto.
Il referto medico non lasciava speranze ...
Ma Giovanni aveva una forte fibra, o era scritto da qualche parte che doveva festeggiare 100 anni. O già il destino
cominciava a giocare con la sua esistenza.
Aleggiava nella stanza d'ospedale, dove era ricoverato, questo ritornello: "Non piangere Dal Cin, hai petto di ferro,
cuore di bronzo e polmoni di acciaio".
Così lo incoraggiavano i medici, anche se dicevano che se fosse sopravvissuto sarebbe rimasto pazzo per le profonde
lesioni alla testa.
Due anni dopo Giovanni Dal Cin era a Pontinia, impegnato nella bonifica dell'Agro Laziale. C'era un pezzo di Veneto in
quegli anni nel Lazio, intere famiglie di coloni erano giunti da ogni parte d'Italia in quella terra di paludi e di
malaria per trasformarla in fertile zona di coltivazione agricola.
Il fisico era menomato a causa di quel terribile incidente ma Giovanni disponeva di grinta e coraggio da vendere.
Ma non era finita qua, perché Giovanni si ammalò di tifo nero. Fatto salire su un treno, si ritrovò ancora una volta
nell'ospedale di Vittorio Veneto.
"Non piangere Dal Cin, hai petto di ferro, cuore di bronzo e polmoni di acciaio". Ancora una volta il destino fu
benevolo, e Giovanni se la cavò, unico tra tutti i suoi compagni di stanza.
Intanto era la guerra. Nel '42 fu richiamato per partecipare alle operazioni sul fronte russo. Non lo sapeva, la patria,
che Giovanni aveva il braccio sinistro devastato e grossi problemi di deambulazione. Nani si presentò regolarmente e per
giorni fu trattenuto al distretto militare di Udine, solo al momento della vestizione un tenente medico si accorse che
on era il caso di spedirlo al fronte e fu rimandato a casa con grandi scuse.
Li conosceva tutti quei suoi compagni, tanti erano amici. Nessuno di questi ritornò dalla Russia.
Il resto della storia è una vita di duro lavoro, una famiglia, tre figlie. Da 60 anni Nani dimora in quella casa posta
tra la chiesa ed il cimitero, dove, quasi lambendola, è scorsa la vita di questo paese, Castello Roganzuolo,
processioni, matrimoni, funerali ...
E' cambiato tutto, ma per Giovanni forse non è cambiato niente, la sua vita sembra ancora scandita dai rintocchi che
provengono dall'orologio del vicino campanile. Lo vedi andare dalla casa all'orto e al piccolo vigneto. Le potava lui le
viti fino a pochi anni fa, ora ha rinunciato a salire sulla scala e deve affidarsi ai generi, che però devono tagliare i
tralci quelli che indica lui all'altezza che dice lui.
Rimpiange di dover muoversi con il bastone, quando un tempo era veloce come una lepre. Ricorda con distacco tutte le
vicissitudini che gli sono capitate e quel ritornello che ha accompagnato la sua esistenza: "Non piangere Dal Cin, hai
petto di ferro, cuore di bronzo e polmoni di acciaio".
Da quell'osservatorio privilegiato vede scorrere, ben più frenetica di un tempo, la vita di Castello. Lui è sempre lì,
mentre le generazioni che gli passano davanti si sono rinnovate più volte, così come si rinnovano le stagioni, l'estate
e l'inverno della vita.
Giovanni il suo cappello alpino lo prestò ad un cugino che gliele aveva chiesto per la scuola militare, tanti,
tantissimi anni fa. Erano gli anni in cui ci si prestava di tutto, dalle scarpe per andare a messa al cappotto per fare
la foto di famiglia, al vestito per il giorno del matrimonio. Quel cappello non lo rivide più. Senza cappello non se la
sentì di partecipare alle manifestazioni degli alpini, anche se più volte avrebbe voluto ritrovarsi con gli amici della
Cadore. Nell'occasione dei festeggiamenti per il secolo di vita, gli alpini del suo Gruppo hanno pensato che quello del
cappello alpino era l'unico dono che gli potevano fare. Tra festeggiamenti, discorsi ed omaggi di tutti i tipi, è stato
questo l'unico momento in cui Nani si è commosso.
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La cassetta della naja gelosamente conservata |
Il vecio Giovanni Dal Cin con i "bocia" del suo Gruppo |