Storie dei nostri veci

I CADUTI NON MUOIONO...


Aprile 1998

I CADUTI NON MUOIONO, VIVONO NELLA MEMORIA STORICA

E’ doveroso ricordare non solo i nostri Eroici Soldati, ma pure le innumerevoli Vittime Civili. Ricordare l’esodo crudele e biblico delle popolazioni della Sinistra Piave. Il dramma vissuto dalla collettività veneta, trevigiana.
Vogliamo richiamare alla memoria le popolazioni del Quartier del Piave, le quali, dopo la disfatta di Caporetto, furono invase dalla truppe austro-ungariche la mattina del 10 novembre 1917; e da quel giorno cominciò la tragedia di un popolo che noi oggi a distanza di oltre 80 anni stiamo rivivendo nel ricordo.
Un esodo biblico – abbiamo detto – che diventa crudele quando qualcuno deve fermarsi per sempre, quando la fame cattiva consigliera spingeva ala legge della sopravvivenza. Strada segnata di lacrime, di sangue, di sofferenza.
La gente, quella che poté, emigrò in terre friulane o quantomeno in località, meno lontane ma più sicure, poiché dalla Destra Piave, in particolare dal Montello – dove si era formato un fronte colossale – le truppe italiane martellavano la piana della Sinistra Piave, dove si era insediato l'esercito austro-ungarico, il quale si proponeva con arroganza – proprio nelle località tra Vidor, Moriago, Sernaglia e Falzè di Piave  – di attraversare il Piave e sfondare la resistenza delle nostre truppe, invadere il Montello e quindi la pianura trevigiana.
Meno male che il Piave dette una mano ai nostri soldati. A causa delle incessanti ed abbondanti piogge il Piave i gonfiò a tal punto da travolgere uomini, animali e cose. Il Piave mormorò…
E’ da qui che ha inizio il lungo martirio delle popolazioni di questi nostri paesi. E’ da qui che questo “esercito senza divisa” paga per un interminabile anno il suo tributo di sangue, dolore e di lacrime.
Vogliamo limitarci a riportare, in queste pagine e nelle future di questo periodico, che usciranno quest’anno, alcune testimonianze inedite, raccolte dice anni fa, dei sopravvissuti, che questi certamente oggi non ci saranno più, ed ai quali noi rendiamo doveroso omaggio.
Riporteremo, in seguito, anche alcuni brevi cenni storici degli Alpini Lino Teofilo Gobbato e di Mario Altarui (scomparsi da alcuni anni), ricavati dall’opuscolo che curammo per il Gruppo Alpini di Falzè di Piave, dieci anni fa.



La piena del Piave del 19 giugno 1918, che imprevedibilmente si verificò ostacolando notevolmente l’afflusso di rinforzi e di munizioni per le truppe avversarie che pochi giorni prima avevano aggredito il Montello. No! - disse il Piave - No! - dissero i Fanti. I versi della «Leggenda del Piave» vennero scritti gradualmente, mano a mano che la canzone si diffondeva - dal luglio del ‘18 - tra i difensori del Fiume divenuto Sacro. La scrisse Giovanna Gaeta - dilettante musicista napoletano, mentre svolgeva il suo servizio impiegato nei vagoni postali militari - e che usò lo pseudonimo E.A. Mario in memoria del discepolo e storico di Mazzini che, come lui, era repubblicano. Lo disse chiaramente anche a Re Vittorio Emanuele, che comunque non gli negò la Commenda.

TESTIMONIANZE INEDITE

Fregolent Secondo fu Leonardo e Bernardi Maria, classe 1909

Quando sono arrivati i tedeschi, ricordo che al mattino il nostro parroco Don Pietro Dal vecchio stava celebrando la Messa, ad un certo punto entrarono i tedeschi ed il nostro parroco sospese la cerimonia.
Quella stessa sera il campanile fu investito dalla tremenda luce dei riflettori italiani dove furono uccise le prime due vedette tedesche.
Eravamo pronti con i carri per attraversare il Piave, ma a trattenerci furono alcune frasi sentite anche dal reverendo parroco, che dicevano di stare fermi perché si trattava solo di un passaggio di truppe tedesche, ma non fu così.
Dopo tre giorni dall’occupazione, dovemmo lasciare la nostra casa. Sotto le raffiche delle mitragliatrici sparate dal Montello contro il nemico ci trasferimmo, lasciando ogni bene, prima a Villanova e poi a Pieve di Soligo dove restammo fermi per circa due settimane. Ma anche a Pieve cominciarono i bombardamenti e dovemmo di nuovo ripartire, a piedi e scortati, sino a Corbanese.
Avevo circa nove anni ed assieme a mio fratello Luigi andavo a lavorare su una strada fatta costruire dagli austriaci; dovevamo rompere sassi per la massicciata, in cambio ci davano da mangiare, solo a mezzogiorno: una ciotola di zuppa con crauti e una pagnottina di pane da dividere in quattro.
Durante la ritirata dei tedeschi, mio zio Angelo aveva saputo che era stato ucciso un cavallo ed era sceso per prenderne un pezzo; purtroppo è stato ucciso. L’abbiamo sepolto a Corbanese.
La nostra famiglia è stata tra le prime a rientrare a Falzè, e, vicino al cimitero, la strada era ancora piena di cadaveri.
Siamo ritornati nel nostro vecchio palazzone, che era tutta una rovina e dove ci siamo riparati alla meglio.

Breda Tarcisio – Liberale.

In quei tempi erano due fratelli, Giovanni capofamiglia con dieci figli e Angelo che allora aveva nove figli. Cinque figli di Giovanni erano sotto le armi con lo zio Angelo.
Tutto il nucleo rimase a Falzè, in località “Mira” fino all’arrivo dei tedeschi, i quali dicevano di voler arrivare sino al Po. Per fortuna questo non avvenne. Poi a seguito di incessanti bombardamenti, caricati su carri li portarono a “Marerazzo” e successivamente, per 25 ore nel cimitero di Pieve. Quindi a Cappella Maggiore e a Sarmede. Durante il viaggio quattro si erano smarriti, ritrovandosi più tardi. A Sarmede rimasero un mese, e poi con il treno si trasferirono nelle vicinanze di Spilimbergo.
Come tutte le famiglie profughe, dovettero arrangiarsi a procurarsi il cibo, mendicando. Furono momenti di travaglio, di sofferenza! Quattro dei componenti morirono: Benvenuto di anni 14, Albina di 4, Bianca di 2 e la nonna di 83.
Finita le guerra, Giovanni riuscì ad avere un carro trainato da un cavallo, e con quello portò le famiglie nel paese natio.
Rientrarono anche coloro che avevano combattuto, e cioè lo zio Angelo e i 5 figli di Giovanni. Si sistemarono provvisoriamente nella casa di Ciprian, perché la loro era distrutta.
Quindi con tanta buona volontà e sacrificio cominciarono la ricostruzione.

Angelo Breda, classe 1901, raccontò ai figli.

"Ero orfano di entrambi i genitori e mi trovavo allora in famiglia con gli zii Luigi e Maria che avevano sette figli, con zia Elisa Sanzovo con quattro figli, mentre suo marito Antonio si trovava richiamato alle armi.
Al momento dell’invasione abitavamo nelle vicinanze della chiesa parrocchiale, poco lontano era già disposta la linea di difesa del Piave dopo la disfatta di Caporetto. Il campanile, quale naturale osservatorio, venne prese di mira dall’artiglieria italiano, in conseguenza anche noi ci trovammo sotto tale tiro, non ci rimase quindi che la possibilità di abbandonare tutto e, aggiogati i buoi ad un carro sul quale si caricò il possibile, partimmo con la famiglia della Libera, nostra vicina.
Non ci rimase che partire, quindi, indirizzandoci da conoscenti in località “La Sisa” a Solighetto, adattandoci a ciò che venne messo a disposizione, alloggiammo colà per un certo tempo, sempre con la speranza di ritornare al più presto nella nostra casa di Falzè.
Invece fummo costretti a trasferirci a Vittorio Veneto, località Longhere e lì, anche se accolti da brava gente, non era mai come nella propria casa. Tale periodo venne trascorso nell’obbligo dei lavori di ripristino delle strade ed in compenso si beneficiava di un mestolo di intruglio che chiamavano minestra.
A tale situazione di fame si cercava di trovare rimedio nel ritornare al nostro paese a raccogliere del frumento, spingendoci, nel pericolo, fino alla zona del fronte. Si faceva il percorso di andata e ritorni pari ad una cinquantina di chilometri e così trovammo il modo di avere anche un po’ di pane.
In seguito raggiungemmo la zona del basso Livenza con la speranza di trovare del granoturco per così avere della polenta.
E, come ogni cosa ha un termine, così con la vittoria delle truppe italiane ebbe fine la guerra e si fece ritorno al paese: tale era la distruzione da non trovare la volontà di ricominciare e riprendere la vita.
Nel ritorno, transitando per Pieve di Soligo, per caso, incontrai un cugino, il quale, particolare fortuito, mi avvisò che poco lontano si trovava la nonna materna molto grave, e che chiedeva di me, corsi da lei, mi riconobbe e poco dopo spirò.”


Un cambattimento sul Montello.
L’avversario F. Weber (“Tappe della disfatta”) così scrisse nel suo resoconto sulla battaglia del Solstizio:
“I cinque giorni di lotta ci sono costati duecentomila morti e feriti e una quantità gigantesca di materiale bellico. Davanti a noi sta, ora, un avversario, al quale questa vittoria restituisce la fiducia in se stesso:
alle nostre spalle, una patria dissanguata, povera e ormai presàga del suo destino. A una potente armata, che per quattro lunghi anni aveva combattuto valorosamente, è stata spezzata, con questa battaglia, la spina dorsale”.

Dal diario di Vincenza Fregolent - scritto nel 1919 – testi originali

Una storia vera successa nel 1915 e 1918 mio padre fu chiamato sotto le armi.
mia mamma non trovava nessuno che facesse i lavori dei campi perché erano tutti sotto le armi.
così le donne bisognava facessero i lavori degli uomini pesanti.
e quando i lavori son finiti e il raccolto messo tutto a posto il grano nel granaio il vino in cantina il fieno nel fienile e tutto a posto.
con grande fatica sempre dalle donne.
il giorno di S. Martino son venuti i tedeschi a distruggere tutto.
an cominciato con salami vino: però loro non mangiava niente se prima si mangiava noi e così bere.
mia mamma quando ha visto che il più lo buttavano, a pensato di nasconderlo.
tanto il mangiare come il vestire.
ma prima cia vestiti tutti per bene. cia indossato tutto per due. due vestiti due maglie due camice e via… che si faceva fatica a muoversi.
eravamo otto fratelli io la prima avevo tredici anni in sette siamo andati a villanova perché qui era troppo vicino al fronte e mia mamma e rimasta a costudire la casa con un bambino di due mesi.
e veniva spesso a portarci da mangiare a villanova un giorno e venuta e a lasiato il bambino aletto elia detto alle vicine che se scappavano prendesse anche il bambino.
ma la mamma sia acorto che bombadava e cia lasciati noi tutti; per venire incontro al piccolo Guerino atrovato le ragasse a metà strada ma senza suo figlio.
benché bombardava essa avanti contro il fronte i tedesci la respingevano indietro ma lei lifaceva capire che aveva un piccolo da prendere son andati asieme ma facevamo fatica andarci a prenderlo perché e caduta una bomba vicino alui era tutto rotto ma il piccolo era salvo così dopo evenuta con noi anchessa a villanova eli eravamo 21 persone in una camera. Li non duro più tanto…

Scrive poi, che dovettero abbandonare la casa, e con un carro tedesco furono portati a Pieve di Soligo, dove furono abbandonati in mezzo ad un campo, tra il freddo ed il gelo. Solo la pietà di una signora permise ai suoi fratelli più piccoli a ripararsi in una casa per riscaldarsi un po’. Poi li trasferirono a Cordignano, dove li sistemarono, con altre due famiglie, in una stalla, come dei maiali.
Quindi ancora a Rugolo, vicino a Sarmede, dove la sistemazione fu – anche se per un breve periodo – un po’ più decente. Successivamente dopo un lungo viaggio in treno, in condizioni bestiali, giunsero ad Artegna.
Sono seguiti altri trasferimenti (ignoti!), tra pianti e disperazione. Dovettero elemosinare per procurarsi un po’ di cibo, per non morire di fame.
Vincenza, venuta a conoscenza della ritirata dei tedeschi, con un suo paesano si incamminò per far ritorno al suo paese. Dopo innumerevoli peripezie, e con un mezzo di fortuna militare, e la bontà di un soldato italiano, sono riusciti a giungere a Susegana.
… 
famiglia era notte non sapevo come fare a presentarmi a quellora feci coraggio e andai trovai una zia che mi acolse con gioia e poi midisse che cera anche mio padre che presto rivava li. io volevo andare da lui che era nella nostra casa a prepararci una stanza per poi venirci aprendere ma la zia non milasciò voleva vedere se miconosceva dopo tanto tempo che era sotto le armi ma io avevo il cuore che voleva andarlo abracciare.
e cosi o obidito alla zia che mia messo vicino il fuoco perché mivedesse bene che aveva un piccolo lumino solo il che aspettava quel momento che arivasse un minuto mi pareva unnora finalmente e rivato volevo andarli incontro ma per ubidienza stai li ferma lui miguardava ma non midiceva niente.
ela siavedendo questo li disse non la conosi quella li elui li disse misembra di averla vista ma non ricordo chi sia la zia lia detto gardela bene elui disse ancora non ricordo e io non nepotevo più ela zia lia detto e tua figlia mi strinse  
forte ma non estato capace parlare per un bel po; poi mi chiese subito sella mamma e fratelli che non finiva più di chiedere come che siano tutti vivi.
e mi disse o chiesto ai superiori un permesso per venire nel Montello dove astar li ovisto la nostra casa tutta giù e pensai che foste tutti morti ma la zia qui: mia detto che eravate vivi nel friuli: e cosi ora son libero per prepare una stanza epoi adiamo a prenderli…
fatto le stanze con legna e canne e sopra teli perla pioggia ma sembrava di essere alaperto quando pioveva ma poi umpo alla volta abiamo fatto una stanza poi unaltra e cosi via.
io trovavo lavoro del genio a prepare le strade ce cera tutti buchi grandi delle granate epoi a portare ghiaia con la parella per fare il ponte del soligo. cosi cominciava a migliorare un poco.
echi lavorava li dava anche da mangiare ecisembrava di essere ricchi.
Qui cera tanta sporchizia i morti erano nei buchi di granata appena coperti che sisentiva lodore, poi cera tanti topi che la botte erano sopra di noi si atacava ai capelli da far fatica levarli.
Ecimangiava tutto perfino le tasce se siaveva messo del pane prima epoi abiamo messo del veleno per i topi che celo passavano e abiamo migliorato umpo.
scritto da me


Queste sono poche ma eloquenti testimonianze per far comprendere la crudeltà della guerra; lo strazio delle tante madri, delle spose, degli innocenti fanciulli, degli anziani che, dopo una vita di sacrifici e stenti, si vedono costretti ad altre dolorose privazioni, tali da compromettere la loro salute, la loro vita.
La guerra è un momento di distacco dell’uomo da Dio, come legge morale, e un temporaneo abbandono degli eventi storici alla logica inflessibile dell’errore.

Renato Brunello



27 ottobre 1918: passaggio di truppe italiani ed inglesi

“Quel lungo treno che andava al confine e trasportava migliaia di alpini”

Nella tragicità della ritirata di Russia, il ritorno avventuroso di Antonio Granziera di San Pietro di Feletto, aggrappato ad un cavallo,  con la fede in cuore e l’invocazione a S. Antonio.

E' un pomeriggio d’autunno, di quest’anno, uno di quei giorni che ti invita a rinchiuderti in casa, o al massimo a far visita a qualche amico, per scambiare qualche parola, o far una partitina a carte, gustando castagne arroste, sorseggiando dal bicchiere del buon vino.
Neanche a farlo apposta è il giorno di San Martino: il detto “Estate di S. Martino “ è smentito, poiché una densa foschia avvolge case e campi, mentre la pioggia incessante bagna le sparse foglie ingiallite.
Vado a trovare un Reduce di Russia, che conosco da molto tempo, ma che mai mi ha parlato della sua campagna di Russia. E’ Antonio GRANZIERA di San Pietro di Feletto, classe 1919.
A ricevermi è la sua cara moglie Antonietta, la quale mi dice. “Toni l’è andà a darghe da magnar ai conici, el vien subito”. Passa qualche istante, ed eccolo arrivare, con la sua calma. Un breve saluto, poi ci sediamo in una saletta dove spicca un bel caminetto con la rotonda. Toni invita la moglie a prendere una bottiglia del suo “prosecco”.Dopo un breve preambolo, lo invito a raccontarmi qualche cosa della sua naja, soprattutto delle sue disavventure di guerra. Toni è di poche parole,; per levargliele dalla bocca bisogna insistere.
Beh, son qua anca mi vivo per miracolo, come tanti altri miei compagni, ma i pì i ze restai là”.
Toni è il più anziano di quattro fratelli, ha sempre lavorato la terra a mezzadria, ora fa qualche lavoretto, tanto per tenersi in movimento. Qualche anno fa si è costruito una bella casetta.
Tornando alla naja, Toni mi racconta che era stato chiamato sotto le armi nel febbraio del 1940, presentandosi nella Caserma del 3° A.M. “Gruppo Conegliano” ad Osoppo.
Dopo pochi mesi il reparto partì per il fronte greco-albanese: e tutti sappiamo com’é andata in quei tristi Paesi: la miseria, la sporcizia, la fame ecc... Fu l'inizio, anche per Toni, di quei quasi tre anni di sofferenza, di tragedie e di morte.
All’inizio del ‘42 il suo reparto partì per la Russia. Egli mi parla del lungo viaggio, della tremenda odissea in terra di Russia. La sua memoria non è perfetta, è un po’ latente; ricorda di esser giunto a ROSSOSCH, e altre località, dove conobbe il ten.col. Rossotto, il cap. Baldissone. Ricorda quando i carri russi accerchiarono lo schieramento italiano, quando sotto il tiro incessante del nemico dovettero ripiegare verso ovest, con l'obiettivo di raggiungere NIKOLAJEWKA.

“Da quel momento - egli dice - è cominciato il calvario del ritorno verso casa, verso la nostra terra. Il freddo era tremendo, la temperatura era di 40° sotto zero, i miei piedi cominciavano a gelarsi. Fortunatamente, assieme ad un sergente maggiore del Friuli ed un artigliere di Trento trovammo dei cavalli di un reparto di artiglieria e con quelli cominciammo ad incamminarci verso i confini. Ogni tanto ci introducevamo nelle isbe che incontravamo lungo il percorso, per scaldarci un po’ e avere una patata calda che le povere donne russe ci davano generosamente, magari rinunciando loro. A quei tempi - egli soggiunge - eravamo poveri noi, ma loro erano ancora più poveri. Dentro le isbe trovavamo tanti compagni di disavventura che rinunciavano a continuare il cammino del ritorno in Patria, i quali all’invito di aggregarsi a noi, rifiutavano, aggiungendo che nelle isbe stavano bene, potevano riscaldarsi e riposare. Penso che molti di loro siano stati fatti prigionieri”.

“Una considerazione che faccio - continua Toni - dobbiamo esser grati alla povera popolazione contadina della Russia, soprattutto alle donne che, mettendo in pericolo anche la propria vita, cercavano in tutte le maniere darci quel pochissimo che avevano “.

Penso che ognuno di noi si sforzi di comprendere quale sia il senso supremo della vita. Quindi non dobbiamo avventurarci in labirinti che ci conducono inesorabilmente alla sua perdita.
Toni Granziera con la fede in cuore, con l’invocazione al suo patrone S. Antonio e con l’aiuto di un cavallo, pur con la congelazione di 2° ai piedi, salva la vita, e dopo un periodo di giacenza nell’ospedale di Brescia, ed un altro di convalescenza, nella primavera del ‘43, fa ritorno al suo Reparto. Nel settembre del 1943, la sua lunga odissea ha fine e può abbracciare i suoi cari.
E’ questa una breve, piccola-grande storia, storia verace di un umile Artigliere-Alpino, una delle innumerevoli e dolorose tragedie che hanno vissuto gli Eroici nostri Soldati.
Scrisse don Carlo Gnocchi nel suo meraviglioso libro “Cristo con gli Alpini”: «Quello che conduce inesorabilmente al conflitto è la superbia e l'egoismo delle nazioni potenti, la cupidigia e l'ottusità dei popoli ricchi, l'odio artificialmente acceso tra le nazioni e le razze, la sfiducia e l'instabilità dei rapporti internazionali, l'arbitrio di quelli che governano, l'edonismo che mina le basi della vita individuale e fa decadere quella delle nazioni, la prepotenza, l'ingiustizia, la menzogna, l'invidia, la calunnia, in una parola, tutto il triste corteggio delle passioni e delle colpe umane. Questo e non altro è il valore vero e sotterraneo che determina le guerre, anche se alla superficie appaiono ed operano le ragioni della politica, dell'economia e della diplomazia.
La guerra è un momento di distacco dell'uomo da Dio, come legge morale, e un temporaneo abbandono degli eventi storici alla logica inflessibile dell'errore.
Così che la guerra diventa condanna, castigo e redenzione dagli errori dai quali è originata. Condanna in quanto ne rivela tragicamente l’occulta assurdità, purificazione in forza dei sacrifici degli uomini e delle cose, redenzione in quanto può meritare agli uomini di buona volontà un ordine di vita migliore.
In tutti questi arcani rapporti, tra l'uomo e la legge morale, tra Dio e l'umanità, tra il contingente e l'eterno, chi soffre per la guerra è la vittima che paga per tutti, rappacifica l'uomo con Dio e riconquista la pace e l'ordine ai propri fratelli. Come tale, il soldato è un piccolo e umano redentore - dico redentore pensando al Cristo - perché la legge in forza della quale egli soffre e muore è la stessa per la quale il Cristo porta e sale la croce: per gli uomini e per la loro salvezza.
Ecco perché il ferito di guerra e il Caduto ispirano un sentimento grave e religioso di soggezione, di venerazione e direi di culto, quale nessun altro ferito o morto comune ha il potere di suscitare. Anch'io, tutte le volte che ho dovuto chinarmi sullo strazio dei miei feriti in guerra e sul corpo dei miei morti, mi sono sentito prendere e soggiogare dalla stringente tentazione di inginocchiarmi a baciare religiosamente quelle ferite e venerare quella morte inferta per me e per la mia redenzione umana.

Ed ecco la nascosta e istintiva ispirazione della serena maestà e della stupenda naturalezza con la quale il soldato accetta e sopporta i più duri sacrifici e le rinunce più gravi. L'anima pura e profonda del popolo arriva a queste mistiche realtà per diritta e sicura intuizione, anche se inconscia e inespressa.
Per questo il soldato è naturalmente religioso. Egli sente chiaramente che, oltre e al di là degli uomini, Dio è il conoscitore giusto e il rimuneratore vero del suo sacrificio spesso oscuro. Molle azioni generose possono rimanere occulte o cadere nell'oblio degli uomini, ma tutto è chiaro ed eloquente agli occhi di Dio che vede nei cuori. Il sangue versato per la Patria, è una delle attuazioni più chiare e più alte della sentenza evangelica. «Non c'è più grande amore di quello che dà la vita per i propri fratelli».
Non abbiamo forse valore se non per le nostre sofferenze, ed ecco perché dobbiamo essere riconoscenti a chi ha sofferto e soffre per un mondo migliore, ed essere sempre disponibili a contribuire ad alleviare le tribolazioni degli altri.

Renato Brunello