Storie dei nostri veci |
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I CADUTI NON MUOIONO... |
E’ doveroso ricordare non solo i nostri Eroici Soldati, ma pure le innumerevoli
Vittime Civili. Ricordare l’esodo crudele e biblico delle popolazioni della
Sinistra Piave. Il dramma vissuto dalla collettività veneta, trevigiana.
Vogliamo
richiamare alla memoria le popolazioni del Quartier del Piave, le quali, dopo
la disfatta di Caporetto, furono invase dalla truppe austro-ungariche la
mattina del 10 novembre 1917; e da quel giorno cominciò la tragedia di un
popolo che noi oggi a distanza di oltre 80 anni stiamo rivivendo nel ricordo.
Un
esodo biblico – abbiamo detto – che diventa crudele quando qualcuno deve
fermarsi per sempre, quando la fame cattiva consigliera spingeva ala legge
della sopravvivenza. Strada segnata di lacrime, di sangue, di sofferenza.
La
gente, quella che poté, emigrò in terre friulane o quantomeno in località,
meno lontane ma più sicure, poiché dalla Destra Piave, in particolare dal
Montello – dove si era formato un fronte colossale – le truppe italiane
martellavano la piana della Sinistra Piave, dove si era insediato l'esercito
austro-ungarico, il quale si proponeva con arroganza – proprio nelle località
tra Vidor, Moriago, Sernaglia e Falzè di Piave – di attraversare il Piave e sfondare la resistenza delle nostre
truppe, invadere il Montello e quindi la pianura trevigiana.
Meno
male che il Piave dette una mano ai nostri soldati. A causa delle incessanti
ed abbondanti piogge il Piave i gonfiò a tal punto da travolgere uomini,
animali e cose. Il Piave mormorò…
E’
da qui che ha inizio il lungo martirio delle popolazioni di questi nostri
paesi. E’ da qui che questo “esercito senza divisa” paga per un
interminabile anno il suo tributo di sangue, dolore e di lacrime.
Vogliamo
limitarci a riportare, in queste pagine e nelle future di questo periodico,
che usciranno quest’anno, alcune testimonianze inedite, raccolte dice anni
fa, dei sopravvissuti, che questi certamente oggi non ci saranno più, ed ai
quali noi rendiamo doveroso omaggio.
Riporteremo,
in seguito, anche alcuni brevi cenni storici degli Alpini Lino Teofilo Gobbato
e di Mario Altarui (scomparsi da alcuni anni), ricavati dall’opuscolo che
curammo per il Gruppo Alpini di Falzè di Piave, dieci anni fa.
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Quando sono arrivati i tedeschi,
ricordo che al mattino il nostro parroco Don Pietro Dal vecchio stava
celebrando la Messa, ad un certo punto entrarono i tedeschi ed il nostro
parroco sospese la cerimonia.
Quella stessa sera il campanile fu
investito dalla tremenda luce dei riflettori italiani dove furono uccise le
prime due vedette tedesche.
Eravamo pronti con i carri per
attraversare il Piave, ma a trattenerci furono alcune frasi sentite anche dal
reverendo parroco, che dicevano di stare fermi perché si trattava solo di un
passaggio di truppe tedesche, ma non fu così.
Dopo tre giorni dall’occupazione,
dovemmo lasciare la nostra casa. Sotto le raffiche delle mitragliatrici
sparate dal Montello contro il nemico ci trasferimmo, lasciando ogni bene,
prima a Villanova e poi a Pieve di Soligo dove restammo fermi per circa due
settimane. Ma anche a Pieve cominciarono i bombardamenti e dovemmo di nuovo
ripartire, a piedi e scortati, sino a Corbanese.
Avevo circa nove anni ed assieme a mio
fratello Luigi andavo a lavorare su una strada fatta costruire dagli
austriaci; dovevamo rompere sassi per la massicciata, in cambio ci davano da
mangiare, solo a mezzogiorno: una ciotola di zuppa con crauti e una pagnottina
di pane da dividere in quattro.
Durante la ritirata dei tedeschi, mio
zio Angelo aveva saputo che era stato ucciso un cavallo ed era sceso per
prenderne un pezzo; purtroppo è stato ucciso. L’abbiamo sepolto a
Corbanese.
La nostra famiglia è stata tra le
prime a rientrare a Falzè, e, vicino al cimitero, la strada era ancora piena
di cadaveri.
Siamo ritornati nel nostro vecchio
palazzone, che era tutta una rovina e dove ci siamo riparati alla meglio.
In quei tempi erano due fratelli,
Giovanni capofamiglia con dieci figli e Angelo che allora aveva nove figli.
Cinque figli di Giovanni erano sotto le armi con lo zio Angelo.
Tutto il nucleo rimase a Falzè, in
località “Mira” fino all’arrivo dei tedeschi, i quali dicevano di voler
arrivare sino al Po. Per fortuna questo non avvenne. Poi a seguito di
incessanti bombardamenti, caricati su carri li portarono a “Marerazzo” e
successivamente, per 25 ore nel cimitero di Pieve. Quindi a Cappella Maggiore
e a Sarmede. Durante il viaggio quattro si erano smarriti, ritrovandosi più
tardi. A Sarmede rimasero un mese, e poi con il treno si trasferirono nelle
vicinanze di Spilimbergo.
Come tutte le famiglie profughe,
dovettero arrangiarsi a procurarsi il cibo, mendicando. Furono momenti di
travaglio, di sofferenza! Quattro dei componenti morirono: Benvenuto di anni
14, Albina di 4, Bianca di 2 e la nonna di 83.
Finita le guerra, Giovanni riuscì ad
avere un carro trainato da un cavallo, e con quello portò le famiglie nel
paese natio.
Rientrarono anche coloro che avevano
combattuto, e cioè lo zio Angelo e i 5 figli di Giovanni. Si sistemarono
provvisoriamente nella casa di Ciprian, perché la loro era distrutta.
Quindi con tanta buona volontà e
sacrificio cominciarono la ricostruzione.
"Ero orfano di entrambi i genitori e
mi trovavo allora in famiglia con gli zii Luigi e Maria che avevano sette
figli, con zia Elisa Sanzovo con quattro figli, mentre suo marito Antonio si
trovava richiamato alle armi.
Al momento dell’invasione abitavamo
nelle vicinanze della chiesa parrocchiale, poco lontano era già disposta la
linea di difesa del Piave dopo la disfatta di Caporetto. Il campanile, quale
naturale osservatorio, venne prese di mira dall’artiglieria italiano, in
conseguenza anche noi ci trovammo sotto tale tiro, non ci rimase quindi che la
possibilità di abbandonare tutto e, aggiogati i buoi ad un carro sul quale si
caricò il possibile, partimmo con la famiglia della Libera, nostra vicina.
Non ci rimase che partire, quindi,
indirizzandoci da conoscenti in località “La Sisa” a Solighetto,
adattandoci a ciò che venne messo a disposizione, alloggiammo colà per un
certo tempo, sempre con la speranza di ritornare al più presto nella nostra
casa di Falzè.
Invece fummo costretti a trasferirci a
Vittorio Veneto, località Longhere e lì, anche se accolti da brava gente,
non era mai come nella propria casa. Tale periodo venne trascorso
nell’obbligo dei lavori di ripristino delle strade ed in compenso si
beneficiava di un mestolo di intruglio che chiamavano minestra.
A tale situazione di fame si cercava di
trovare rimedio nel ritornare al nostro paese a raccogliere del frumento,
spingendoci, nel pericolo, fino alla zona del fronte. Si faceva il percorso di
andata e ritorni pari ad una cinquantina di chilometri e così trovammo il
modo di avere anche un po’ di pane.
In seguito raggiungemmo la zona del
basso Livenza con la speranza di trovare del granoturco per così avere della
polenta.
E, come ogni cosa ha un termine, così
con la vittoria delle truppe italiane ebbe fine la guerra e si fece ritorno al
paese: tale era la distruzione da non trovare la volontà di ricominciare e
riprendere la vita.
Nel ritorno, transitando per Pieve di
Soligo, per caso, incontrai un cugino, il quale, particolare fortuito, mi
avvisò che poco lontano si trovava la nonna materna molto grave, e che
chiedeva di me, corsi da lei, mi riconobbe e poco dopo spirò.”
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Una storia vera successa nel 1915 e 1918 mio padre fu chiamato sotto le armi.
mia mamma non trovava nessuno che facesse i lavori dei campi perché erano tutti
sotto le armi.
così le donne bisognava facessero i lavori degli uomini pesanti.
e quando i lavori son finiti e il raccolto messo tutto a posto il grano nel
granaio il vino in cantina il fieno nel fienile e tutto a posto.
con grande fatica sempre dalle donne.
il giorno di S. Martino son venuti i tedeschi a distruggere tutto.
an cominciato con salami vino: però loro non mangiava niente se prima si
mangiava noi e così bere.
mia mamma quando ha visto che il più lo buttavano, a pensato di nasconderlo.
tanto il mangiare come il vestire.
ma prima cia vestiti tutti per bene. cia indossato tutto per due. due vestiti due
maglie due camice e via… che si faceva fatica a muoversi.
eravamo otto fratelli io la prima avevo tredici anni in sette siamo andati a villanova
perché qui era troppo vicino al fronte e mia mamma e rimasta a costudire la
casa con un bambino di due mesi.
e veniva spesso a portarci da mangiare a villanova un giorno e venuta e a
lasiato il bambino aletto elia detto alle vicine che se scappavano prendesse
anche il bambino.
ma la mamma sia acorto che bombadava e cia lasciati noi tutti; per venire
incontro al piccolo Guerino atrovato le ragasse a metà strada ma senza suo
figlio.
benché bombardava essa avanti contro il fronte i tedesci la respingevano indietro ma
lei lifaceva capire che aveva un piccolo da prendere son andati asieme ma
facevamo fatica andarci a prenderlo perché e caduta una bomba vicino alui era
tutto rotto ma il piccolo era salvo così dopo evenuta con noi anchessa a
villanova eli eravamo 21 persone in una camera. Li non duro più tanto…
…
Scrive poi, che dovettero
abbandonare la casa, e con un carro tedesco furono portati a Pieve di Soligo,
dove furono abbandonati in mezzo ad un campo, tra il freddo ed il gelo. Solo
la pietà di una signora permise ai suoi fratelli più piccoli a ripararsi in
una casa per riscaldarsi un po’. Poi li trasferirono a Cordignano, dove li
sistemarono, con altre due famiglie, in una stalla, come dei maiali.
Quindi ancora a Rugolo, vicino a Sarmede, dove la sistemazione fu – anche se per un breve periodo – un
po’ più decente. Successivamente dopo un lungo viaggio in treno, in
condizioni bestiali, giunsero ad Artegna.
Sono seguiti altri trasferimenti
(ignoti!), tra pianti e disperazione. Dovettero elemosinare per procurarsi un
po’ di cibo, per non morire di fame.
Vincenza, venuta a conoscenza della
ritirata dei tedeschi, con un suo paesano si incamminò per far ritorno al suo
paese. Dopo innumerevoli peripezie, e con un mezzo di fortuna militare, e la
bontà di un soldato italiano, sono riusciti a giungere a Susegana.
…
famiglia
era notte non sapevo come fare a presentarmi a quellora feci coraggio e andai
trovai una zia che mi acolse con gioia e poi midisse che cera anche mio padre
che presto rivava li. io volevo andare da lui che era nella nostra casa a
prepararci una stanza per poi venirci aprendere ma la zia non milasciò voleva
vedere se miconosceva dopo tanto tempo che era sotto le armi ma io avevo il
cuore che voleva andarlo abracciare.
e
cosi o obidito alla zia che mia messo vicino il fuoco perché mivedesse bene
che aveva un piccolo lumino solo il che aspettava quel momento che arivasse un
minuto mi pareva unnora finalmente e rivato volevo andarli incontro ma per
ubidienza stai li ferma lui miguardava ma non midiceva niente.
ela
siavedendo questo li disse non la conosi quella li elui li disse misembra di
averla vista ma non ricordo chi sia la zia lia detto gardela bene elui disse
ancora non ricordo e io non nepotevo più ela zia lia detto e tua figlia mi
strinse
forte ma non estato capace parlare per
un bel po; poi mi chiese subito sella mamma e fratelli che non finiva più di
chiedere come che siano tutti vivi.
e
mi disse o chiesto ai superiori un permesso per venire nel Montello dove astar
li ovisto la nostra casa tutta giù e pensai che foste tutti morti ma la zia
qui: mia detto che eravate vivi nel friuli: e cosi ora son libero per prepare
una stanza epoi adiamo a prenderli…
fatto
le stanze con legna e canne e sopra teli perla pioggia ma sembrava di essere
alaperto quando pioveva ma poi umpo alla volta abiamo fatto una stanza poi
unaltra e cosi via.
io
trovavo lavoro del genio a prepare le strade ce cera tutti buchi grandi delle
granate epoi a portare ghiaia con la parella per fare il ponte del soligo.
cosi cominciava a migliorare un poco.
echi
lavorava li dava anche da mangiare ecisembrava di essere ricchi.
Qui
cera tanta sporchizia i morti erano nei buchi di granata appena coperti che
sisentiva lodore, poi cera tanti topi che la botte erano sopra di noi si
atacava ai capelli da far fatica levarli.
Ecimangiava tutto perfino le tasce se
siaveva messo del pane prima epoi abiamo messo del veleno per i topi che celo
passavano e abiamo migliorato umpo.
scritto
da me
Queste
sono poche ma eloquenti testimonianze per far comprendere la crudeltà della
guerra; lo strazio delle tante madri, delle spose, degli innocenti fanciulli,
degli anziani che, dopo una vita di sacrifici e stenti, si vedono costretti ad
altre dolorose privazioni, tali da compromettere la loro salute, la loro vita.
La
guerra è un momento di distacco dell’uomo da Dio, come legge morale, e un
temporaneo abbandono degli eventi storici alla logica inflessibile
dell’errore.
Renato Brunello
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Nella tragicità della ritirata di Russia, il ritorno avventuroso di Antonio Granziera di San Pietro di Feletto, aggrappato ad un cavallo, con la fede in cuore e l’invocazione a S. Antonio.
E' un pomeriggio
d’autunno, di quest’anno, uno di quei giorni che ti invita a rinchiuderti
in casa, o al massimo a far visita a qualche amico, per scambiare qualche
parola, o far una partitina a carte, gustando castagne arroste, sorseggiando
dal bicchiere del buon vino.
Neanche a farlo apposta è
il giorno di San Martino: il detto “Estate di S. Martino “ è smentito,
poiché una densa foschia avvolge case e campi, mentre la pioggia incessante
bagna le sparse foglie ingiallite.
Vado a trovare un Reduce
di Russia, che conosco da molto tempo, ma che mai mi ha parlato della sua
campagna di Russia. E’ Antonio GRANZIERA di San Pietro di Feletto, classe
1919.
A ricevermi è la sua cara
moglie Antonietta, la quale mi dice. “Toni l’è andà a darghe da magnar
ai conici, el vien subito”. Passa qualche istante, ed eccolo arrivare, con
la sua calma. Un breve saluto, poi ci sediamo in una saletta dove spicca un
bel caminetto con la rotonda. Toni invita la moglie a prendere una bottiglia
del suo “prosecco”.Dopo un breve preambolo,
lo invito a raccontarmi qualche cosa della sua naja, soprattutto delle sue
disavventure di guerra. Toni è di poche parole,; per levargliele dalla bocca
bisogna insistere.
Beh, son qua anca mi vivo
per miracolo, come tanti altri miei compagni, ma i pì i ze restai là”.
Toni è il più anziano di
quattro fratelli, ha sempre lavorato la terra a mezzadria, ora fa qualche
lavoretto, tanto per tenersi in movimento. Qualche anno fa si è costruito una
bella casetta.
Tornando alla naja, Toni
mi racconta che era stato chiamato sotto le armi nel febbraio del 1940,
presentandosi nella Caserma del 3° A.M. “Gruppo Conegliano” ad Osoppo.
Dopo pochi mesi il reparto
partì per il fronte greco-albanese: e tutti sappiamo com’é andata in quei
tristi Paesi: la miseria, la sporcizia, la fame ecc... Fu l'inizio, anche per
Toni, di quei quasi tre anni di sofferenza, di tragedie e di morte.
All’inizio del ‘42 il
suo reparto partì per la Russia. Egli mi parla del lungo viaggio, della
tremenda odissea in terra di Russia. La sua memoria non è perfetta, è un
po’ latente; ricorda di esser giunto a ROSSOSCH, e altre località, dove
conobbe il ten.col. Rossotto, il cap. Baldissone. Ricorda quando i carri russi
accerchiarono lo schieramento italiano, quando sotto il tiro incessante del
nemico dovettero ripiegare verso ovest, con l'obiettivo di raggiungere
NIKOLAJEWKA.
“Da quel momento - egli dice - è cominciato il calvario del ritorno verso casa, verso la nostra terra. Il freddo era tremendo, la temperatura era di 40° sotto zero, i miei piedi cominciavano a gelarsi. Fortunatamente, assieme ad un sergente maggiore del Friuli ed un artigliere di Trento trovammo dei cavalli di un reparto di artiglieria e con quelli cominciammo ad incamminarci verso i confini. Ogni tanto ci introducevamo nelle isbe che incontravamo lungo il percorso, per scaldarci un po’ e avere una patata calda che le povere donne russe ci davano generosamente, magari rinunciando loro. A quei tempi - egli soggiunge - eravamo poveri noi, ma loro erano ancora più poveri. Dentro le isbe trovavamo tanti compagni di disavventura che rinunciavano a continuare il cammino del ritorno in Patria, i quali all’invito di aggregarsi a noi, rifiutavano, aggiungendo che nelle isbe stavano bene, potevano riscaldarsi e riposare. Penso che molti di loro siano stati fatti prigionieri”.
“Una considerazione che faccio - continua Toni - dobbiamo esser grati alla povera popolazione contadina della Russia, soprattutto alle donne che, mettendo in pericolo anche la propria vita, cercavano in tutte le maniere darci quel pochissimo che avevano “.
Penso che ognuno di noi si
sforzi di comprendere quale sia il senso supremo della vita. Quindi non
dobbiamo avventurarci in labirinti che ci conducono inesorabilmente alla sua
perdita.
Toni Granziera con la fede
in cuore, con l’invocazione al suo patrone S. Antonio e con l’aiuto di un
cavallo, pur con la congelazione di 2° ai piedi, salva la vita, e dopo un
periodo di giacenza nell’ospedale di Brescia, ed un altro di convalescenza,
nella primavera del ‘43, fa ritorno al suo Reparto. Nel settembre del 1943,
la sua lunga odissea ha fine e può abbracciare i suoi cari.
E’ questa una breve,
piccola-grande storia, storia verace di un umile Artigliere-Alpino, una delle
innumerevoli e dolorose tragedie che hanno vissuto gli Eroici nostri Soldati.
Scrisse
don Carlo Gnocchi nel suo meraviglioso libro “Cristo con gli Alpini”: «Quello
che conduce inesorabilmente al conflitto è la superbia e l'egoismo delle
nazioni potenti, la cupidigia e l'ottusità dei popoli ricchi, l'odio
artificialmente acceso tra le nazioni e le razze, la sfiducia e l'instabilità
dei rapporti internazionali, l'arbitrio di quelli che governano, l'edonismo
che mina le basi della vita individuale e fa decadere quella delle nazioni, la
prepotenza, l'ingiustizia, la menzogna, l'invidia, la calunnia, in una parola,
tutto il triste corteggio delle passioni e delle colpe umane. Questo e non
altro è il valore vero e sotterraneo che determina le guerre, anche se alla
superficie appaiono ed operano le ragioni della politica, dell'economia e
della diplomazia.
La
guerra è un momento di distacco dell'uomo da Dio, come legge morale, e un
temporaneo abbandono degli eventi storici alla logica inflessibile
dell'errore.
Così
che la guerra diventa condanna, castigo e redenzione dagli errori dai quali è
originata. Condanna in quanto ne rivela tragicamente l’occulta assurdità,
purificazione in forza dei sacrifici degli uomini e delle cose, redenzione in
quanto può meritare agli uomini di buona volontà un ordine di vita migliore.
In
tutti questi arcani rapporti, tra l'uomo e la legge morale, tra Dio e l'umanità,
tra il contingente e l'eterno, chi soffre per la guerra è la vittima che paga
per tutti, rappacifica l'uomo con Dio e riconquista la pace e l'ordine ai
propri fratelli. Come tale, il soldato è un piccolo e umano redentore - dico
redentore pensando al Cristo - perché la legge in forza della quale egli
soffre e muore è la stessa per la quale il Cristo porta e sale la croce: per
gli uomini e per la loro salvezza.
Ecco
perché il ferito di guerra e il Caduto ispirano un sentimento grave e
religioso di soggezione, di venerazione e direi di culto, quale nessun altro
ferito o morto comune ha il potere di suscitare. Anch'io, tutte le volte che
ho dovuto chinarmi sullo strazio dei miei feriti in guerra e sul corpo dei
miei morti, mi sono sentito prendere e soggiogare dalla stringente tentazione
di inginocchiarmi a baciare religiosamente quelle ferite e venerare quella
morte inferta per me e per la mia redenzione umana.
Ed ecco la nascosta e istintiva ispirazione della serena maestà e della stupenda
naturalezza con la quale il soldato accetta e sopporta i più duri sacrifici e
le rinunce più gravi. L'anima pura e profonda del popolo arriva a queste
mistiche realtà per diritta e sicura intuizione, anche se inconscia e
inespressa.
Per
questo il soldato è naturalmente religioso. Egli sente chiaramente che, oltre
e al di là degli uomini, Dio è il conoscitore giusto e il rimuneratore vero
del suo sacrificio spesso oscuro. Molle azioni generose possono rimanere
occulte o cadere nell'oblio degli uomini, ma tutto è chiaro ed eloquente agli
occhi di Dio che vede nei cuori. Il sangue versato per la Patria, è una delle
attuazioni più chiare e più alte della sentenza evangelica. «Non c'è più
grande amore di quello che dà la vita per i propri fratelli».
Non abbiamo forse valore
se non per le nostre sofferenze, ed ecco perché dobbiamo essere riconoscenti
a chi ha sofferto e soffre per un mondo migliore, ed essere sempre disponibili
a contribuire ad alleviare le tribolazioni degli altri.
Renato Brunello