Storie dei nostri veci

IL PADRE


Dicembre 1986

TESTIMONIANZA DI UN REDUCE DI RUSSIA

In una fumosa “isba” russa vicino ad una grande stufa accosciati uno accanto all’altro per meglio riscaldarci, il tempo passava rapido tra il racconto dei fatti propri e quello di episodi recenti avvenuti nella guerra che stavamo combattendo. Avevo sulle ginocchia il mio inseparabile libretto di appunti. Annotai, quasi inconsapevolmente, quanto andava dicendo un soldato.
La sua voce mi giungeva, dal fondo scuro della stanza, sommessa, quasi timorosa. Rovistando, oggi, tra le vecchie cose ho trovato il libriccino ed il ricordo si è concretizzato.
***
Gennaio 1942, Slavianka.
Alto, ossuto, passava tra noi come uno di noi. Lunga e nera la barba gli faceva tutt’uno con la capigliatura caratteristica del frate francescano. La sommità del capo sempre ben rasata. Noi ci domandavamo come egli facesse a tenerla sempre in ordine, cosa questa ben strana, poiché il nostro barbitonsore era un emerito cane.
La sua figura ascetica era tanto nota che noi lo consideravamo uno dei nostri. Alla sera, durante le pause della guerriglia, ce lo trovavamo accanto a giocare a carte. Aveva una fortuna sfacciata. Così ci toccava andare a confessarci anche contro voglia, perché lui non voleva soldi quando vinceva, ma pagava regolarmente in sigarette, quando perdeva.
Lo chiamavamo “Padre” benché avesse pochi anni più di noi, tutti giovani. Era, in parole povere, un elemento necessario all’equilibrio della nostra non facile vita al fronte. Pronto allo scherzo e alla freddura, il volto che ispirava fiducia e bontà, tutto ci perdonava:
anche le nostre più colorite imprecazioni. Prendeva parte alle nostre pene, e, per molti, era lo scrivano, che trovava le parole amorose, per la fidanzata lontana.
Avemmo modo di conosce re la sua bontà quando le cose per noi si misero al peggio, dovemmo in fretta e furia abbandonare la località a noi tanto cara, per averci trascorso tanto tempo in una quasi vita serena di riposo — a parte le scaramucce di prammatica — per portarci in una zona dove i momenti di tranquillità divennero ogni giorno più rari. Con il pericolo sempre costante, venne pure l’inverno, il temuto inverno russo.
Fummo attaccati di sorpresa una notte di gennaio. Uscimmo al contrattacco.
Fu cosa tremenda. La furibonda lotta corpo a corpo Non so cosa successe, ma dopo un tempo che a me parve eterno, caddi colpito. La notte finiva.
L’alba gelida rischiarava il cielo solcato dai lampi sempre più radi delle opposte artiglierie. Io giacevo tra un groviglio di corpi, lucidissimo ma incapace di fare un movimento. La lotta s’era spostata a nord, più furibonda che mai.
Mi giungeva il crepitar degli spari e le grida delle opposte formazioni.
Ancora sul terreno dove io giacevo ritornò a divampare la battaglia. Il mio pensiero corse alla famiglia lontana, ed invocai quel Dio, cui tante volte avevo imprecato, di farmi la grazia di scamparla. Potenza della preghiera. Socchiusi gli occhi, una rossa croce su campo verde copriva lo spazio di cielo sopra il mio capo. Mi scossi per scacciare il pensiero che mi balenò alla mente. Che tutto fosse frutto di fantasia? Ma il prurito dei peli di una barba mi solleticò il viso. Mai carezza parve più dolce. Due forti braccia mi alzarono. Il volto del “Padre” divenne concreto facendomi comprendere che non era un sogno, ma realtà!
Quando la sua voce mi domandò come mi sentivo, io per tutta risposta dissi: “In braccio al Salvatore”.
Con facilità mi caricò sulle spalle, e curvo sotto il peso di questo peccatore, percorse, tra l’infuriare della lotta, un tratto che mi parve estremamente lungo, si che giungemmo al riparo.
Guarito ritornai al reparto a per prima cosa chiesi del “Padre”. Mi dissero che non c’era. Che era morto per salvare un soldato. Al comando mi accolsero con una freddezza che non seppi comprendere, ma che ben presto, avuta la stessa accoglienza dai miei compagni, mi spiegai. Quel soldato, salvato dal “Padre” a costo della vita, ero io.
Nessuno poteva perdonarmi di essere stato la causa di tanto sacrificio. Egli, quando mi sollevò da terra ricevette una pallottola che gli penetrò in profondità nel torace, ma compiendo una sforzo sovrumano trovò la forza di portarmi in salvo, di raccomandarmi agli infermieri, e quindi, vistomi al sicuro, cadde a terra e due ore dopo morì. Così mi riferirono.
Il fraticello fece il sacrificio della sua vita per salvare una nera pecora che oggi non può fare a meno di sdebitarsi facendo conoscere l’oscuro ma luminoso sacrificio di un altrettanto oscuro fraticello di San Francesco.
MANLIO ANZETTA