Storie dei nostri veci |
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PIETRO MINET |
Settembre 2007
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Bastava una firma. All’indomani dell’8 settembre 1943, i militari
italiani fatti prigionieri che rifiutarono la collaborazione prima e l’adesione
alla Repubblica Sociale poi furono concentrati in campi di prigionia e di
lavoro. A loro, per diverso tempo, non fu riconosciuto lo “status” di
prigioniero di guerra, la qual cosa avrebbe comportato la tutela da parte delle
convenzioni internazionali. I Tedeschi escogitarono un termine che faceva di
questi sventurati qualcosa di ibrido: erano Internati Militari Italiani (IMI).
Seicentomila se ne contarono, che dissero “no” alla collaborazione e
all’adesione. Sarebbe bastato firmare un semplice foglio di adesione per venire
rimpatriati: non lo firmarono. Pagarono questa scelta a caro prezzo, perché,
anche se nei lager dove erano stati rinchiusi non subirono le violenze riservate
altrove ad altri (in primis agli Ebrei), ugualmente soffrirono: con la mancanza
della libertà, il lavoro coatto, la fame, il freddo, i pidocchi. Quella
condizione fu vissuta dalla stragrande maggioranza degli IMI con grande dignità.
Era la maniera scelta da questi uomini, combattenti in una guerra disastrosa e
non sentita, per osteggiare e combattere il nazifascismo. Soltanto con il
rifiuto di quel sistema si sarebbero riscattati idealmente per una patria che
sognavano migliore. Tornati in Italia, dopo venti mesi di sofferenze, questi
uomini non fecero chiassate, non si organizzarono in partiti, non adottarono
forme clamorose di contestazione, ma in silenzio rientrarono in famiglia per
attendere ai loro normali fatti quotidiani: e di questo i politici
approfittarono per relegarli nel dimenticatoio.
La Resistenza combattuta in Italia sulle montagne, nelle città, nelle fabbriche
ha avuto e meritato un ampio riconoscimento. La loro, che pure non fu minor
Resistenza, combattuta senz’armi, quindi silenziosa, fu ignorata.
Tutto comincia il 15 novembre 1941 quando Rino parte dalla stazione di
Conegliano con destinazione la caserma alpini di Bolzano.
Classe 1922, è nato a Cozzuolo da dove la sua famiglia si è trasferita prima a
Colle Umberto poi a Scomigo.
E’ impegnato con i sui fratelli nel lavoro dei campi vivendo la dignitosa, e
grande, povertà delle famiglie contadine di allora, l’unico svago è ritrovarsi
con gli amici la sera sotto l’unico palo della luce del paese. Null’altro.
Ha appena completato il corso premilitare a Conegliano, raggiunta ogni volta a
piedi non essendoci altro mezzo, e a 19 anni è giunto finalmente il momento di
dare il suo contributo alla causa di una patria “forte e invincibile”. A Bolzano
viene inquadrato nel reparto radiotelegrafisti quindi inviato a Castigliole
d’Asti al 2^ Battaglione Misto Genio dove continua la preparazione come
marconista. Ai primi di luglio del ’42, tre giorni di permesso, poi la Russia.
Nikolajewka.
Mesi prima un’armata italiana, l’ARMIR, era stata mandata in territorio
sovietico per contribuire, a fianco delle truppe di Hitler, a quella che la
propaganda aveva descritto come una improrogabile formalità, e cioè
“l’annientamento dell’Unione Sovietica e l’eliminazione del bolscevismo”. La
partenza avvenne ad Asti su carri ferroviari dove compariva la scritta “cavalli
8 uomini 40”. Oltre Tarvisio, il paesaggio cambiò. Attraverso le ampie aperture
dei carri bestiame gli alpini godevano la vista di torrenti, di prati verdi, di
paesi ordinati attorno a leggiadri campanili. Austria, Cecoslovacchia, Polonia,
grandi città e minuscoli villaggi. E dopo una settimana la Russia.
Il treno percorreva una campagna ora piatta ora leggermente ondulata, con campi
di girasoli immensi di cui l’occhio non riusciva a vedere la fine, senza case,
alberi o uomini. Poi improvvisamente qualche villaggio di casupole che svanivano
subito dietro la vastità di altre distese di girasoli che si alternavano a campi
incolti dove la vista non riusciva a trovare punti d’appoggio nell’orizzonte
senza limiti. La tradotta finì la sua corsa a Gorlowka, villaggio al centro di
un’infinita pianura. Poi in marcia verso il fronte, spesso di notte al chiarore
della luna sotto una volta di stelle luminosissime che a Rino sembravano
scintille, per evitare la calura del giorno. E non c’era acqua per lavarsi,
pochissima quella per spegnere la sete, il rancio mai abbondante. Le soste
seduti per terra o sullo zaino a grattarsi i pidocchi.
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Il reparto era destinato alle montagne del Caucaso ma fu poi dirottato sul Don a
rinforzare le divisione di fanteria. Tutto tranquillo, mai visto un soldato
russo né uno tedesco, scarsissimi anche i contatti con la popolazione.
Ma a metà dicembre i russi sferrarono una grande offensiva e accerchiarono lo
schieramento italiano. La divisione si trovò così chiusa in una sacca. Davanti
l’artiglieria teneva bene ma i sovietici già irrompevano nelle retrovie.
Nikolajewka è la pagina più nera tra quelle vissute dagli alpini. Rino c’era a
Nikolajewka, quel 26 gennaio 1943. Vide l’orrore. Si trovò su una nuda collina
imbiancata, facile bersaglio del tiro diretto dei micidiali katiuscia, con i
compagni che cadevano, con la neve che si alzava a nuvole sotto i colpi
vicinissimi ai suoi piedi… Poi la precipitosa fuga verso ovest, in una pista
innevata dove affluivano soldati italiani allo sbando da tutte le direzioni. Una
scia interminabile di uomini disperati che si trascina nella neve, camminando
giorno e notte, 40 gradi sotto zero, un’apocalisse dove chi si fermava era
perduto, cadeva e non si rialzava più. E la notte il silenzio era rotto solo dai
passi che calpestavano la neve appiccicosa. Rino lo ricorda il silenzio lugubre
ed abissale di quel mare di ghiaccio, dove si rifletteva un cielo luminosissimo.
E finalmente la tradotta. Salire su quella tradotta che portava in salvo feriti
e congelati non fu facile, perché i vagoni non erano sufficienti a contenere
tutta quell’umanità derelitta, ammucchiati peggio delle bestie. Era il 15 marzo
43 quando il treno varcò il confine. Degli otto commilitoni partiti da
Conegliano ritornava solo lui. Alla stazione del Brennero, Rino ricorda che
appena cessato lo sferragliare delle ruote del treno, dalla gente si alzò uno
strano clamore che prima sembrava un applauso di benvenuto ed invece era un
angosciato elenco di nomi e cognomi, cercati ed invocati, con fotografie di
giovani ventenni sorridenti. Volti che non aveva mai visto e che se anche avesse
visto non avrebbe più riconosciuto, ricordando solo le facce stravolte dei
compagni di ritirata. Quindici giorni in contumacia ad Udine dove poté vedere il
padre, accorso per salutarlo, solo attraverso i vetri dell’ospedale.
KG, Kriegsgefangener. Un mese di licenza poi a Gorizia, Bolzano e
Bressanone, dove veniva ricostruito il suo battaglione. E qui lo sorprese l’8
settembre. La mattina del 10, soldati tedeschi, pochi ma organizzatissimi,
circondarono la sua caserma intimando la resa e la consegna delle armi. Dal
portone spalancato, passando tra due tedeschi con la pistola in pugno, i
militari uscivano ad uno ad uno, gettavano il moschetto su di un mucchio e
salivano sugli autocarri. Rino ricorda che il mucchio, altissimo, pareva una
surreale piramide di scheletri. Nella confusione riuscì anche a sgattaiolare
fuori dalla fila, ma furono proprio due Altoatesini a bloccarlo e riconsegnarlo
ai tedeschi. Poi un’altra volta il carro bestiame, destinazione Limburg,
Germania. Qui il duro lavoro coatto in una fornace assieme a 30 militari
italiani. La fornace distava 5 chilometri di marcia, mattina e sera. La fame
smisurata. Si portavano appresso una marmitta con del minestrone immangiabile,
lo stesso che consumavano la sera.
Tre giorni alla settimana un filone di pane veniva diviso in tre e quattro
giorni in quattro. C’erano i turni per fare le parti, chi tagliava sceglieva la
sua parte per ultimo. In venti mesi, mai vista la carne. Otto ore di lavoro
d’inverno, nove d’estate, sei giorni la settimana, la domenica controllati nella
baracca. Ci fu qualche contatto con la popolazione, le ragazze salutavano
sorridenti, le famiglie germaniche di allora contavano solo donne, vecchi e
bambini, uomini non ce n’erano. Rino ebbe la sensazione di gente gentile e molto
buona. Elaborò così dentro di sé la teoria che fosse la divisa, quella maledetta
divisa, una volta indossata, a far diventare cattivi i tedeschi. Ci furono dei
momenti in cui la vigilanza era allentata e Rino avrebbe potuto tentare la fuga.
Ma dove sarebbe potuto andare con quella divisa estiva che si portava addosso
dall’8 settembre, non più riconoscibile come divisa grigioverde dell’esercito
italiano, dal colore indefinibile, piena di buchi, rammendi, tasselli,
sfilacciature, e marchiata sulla schiena da un indelebile e cubitale KG,
Kriegsgefangener, prigioniero di guerra… Poi la liberazione ed il rientro,
ancora in treno: barbuto e lacero, i pantaloni e la camicia gli stessi che
indossava l’8 settembre al momento della cattura. Nessun comitato di
accoglienza, nessuno a chiedergli della sua prigionia, nessuna autorità politica
o militare ad informarsi di come erano andate le cose, guardato male perché
aveva perso la guerra e rovinato l’Italia… Ma per i suoi (intanto la famiglia si
era trasferita a Castello Roganzuolo) era il Rino di sempre, quello che tutti
aspettavano. Ritrovò il calore di una tavola, anche se l’assillo della fame
continuò a rimanergli dentro per anni. Poi... Poi la terra, la sua terra, era
bella ma povera, e il lavoro non bastava mai. Salì ancora una volta sul treno
con destinazione prima la Svizzera poi Torino. Poi altre vicende difficili e
dolorose che Rino ricorda con una serenità ed un distacco sconcertanti. Oggi
Pietro Minet è in prima fila, umile testimone di pace, nelle manifestazioni in
cui si ricordano quelli che, dopo aver combattuto come lui per una causa
sconosciuta, sono rimasti lungo le piste ghiacciate ed ora giacciono sotto una
terra che non è la loro, senza un fiore o addirittura una tomba. Sempre
presente, come nel 1993, quando partecipò a Rossosch, in Russia,
all’inaugurazione dell’asilo realizzato dalla nostra Associazione per ricordare
gli alpini caduti in quella terra. Ritornare in quei luoghi non fu facile, ma
non volle mancare. Per lui era come deporre un fiore sulle tombe degli amici che
non erano più tornati. Per aver vissuto sulla sua pelle le brutture della guerra
e per quella bontà d’animo che traspare dalla sua espressione, la sua è la
testimonianza silenziosa, ma forte, di chi sa quanto è grande il bene della
fratellanza. Malgrado il tempo trascorso, un paesaggio innevato o un coro alpino
fanno affiorare in lui immagini nitide, precise ed indelebili: il biancore della
steppa, i silenzi immensi, rotti dallo stridere della neve sotto i piedi, e
quelle stelle che sembravano scintille nel grande cielo di Russia.
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