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LA VERA STORIA DI “SCARPE AL SOLE” |
giugno 2002
L’alpino Bepi Sartor di Pederobba ci ha fatto pervenire questo racconto, frutto di una sua ricerca e di tanti suoi ricordi o, forse, solo ricordo struggente degli anni della naja. Vi si coglie (e lo capiscono meglio coloro che erano della Julia) il gusto del riandare con la mente al periodo vissuto in quella terra profondamente alpina che è il Friuli.
Da bambino ho visto un filmato che narrava la storia di
una famiglia della Carnia durante gli anni della grande guerra. Prima della
guerra i componenti della famiglia erano piccoli artigiani e costruivano
spinelli per le botti, secchi di legno, cucchiai e forchette. La madre
scambiava tali prodotti girando in tutta la pianura del Basso Friuli da dove
riportava a casa il grano che scarseggiava ove la famiglia viveva, ai piedi
dei Monte Canin. Il capofamiglia sarebbe poi morto nei cupi giorni di
Caporetto e due figli avrebbero conosciuto la stessa sorte sul Montello.
Durante gli anni in cui il fronte di guerra attraversava la Carnia la madre,
che conosceva i luoghi e che non aveva purtroppo più nulla da fare,
collaborava con i soldati dell’esercito italiano, camminando in lungo e
largo sui luoghi impervi della guerra, spiando le postazioni e le mosse degli
austriaci e fornendo utili informazioni ai comandanti italiani. Alla fine
della guerra avrebbe avuto la medaglia al valor militare.
Questa era la trama del film che io però ho potuto
verificare nella realtà quando ho fatto il militare, nel secondo dopoguerra,
negli stessi luoghi descritti dal film. Ho vissuto anch’io 18 mesi sotto il
monte Canin, come alpino rocciatore. Ho acquisito anche il diploma di
rocciatore con 95 punti. Ero in caserma a Tarcento, dove, peraltro, non si
stava male. Preferivo però andare in pattuglia appena possibile. Due volte la
settimana andavo a sorvegliare, con altri sette compagni ed un sergente, il
confine con la Jugoslavia. Mi ricordo il luogo: Ucea Tanamea. Noi sette
rocciatori, non appaia c’era qualcosa da fare, facevamo sempre assieme un
passo in avanti pur di uscire dalla caserma e fare qualcosa all’aperto. Ero
l’unico trevigiano in mezzo ad una compagnia di friulani. A questi ho avuto
occasione di raccontare la trama dei film che avevo visto nella mia infanzia,
quando ero emigrante in Svizzera. I miei compagni aggiunsero altri particolari
tratti dalla loro memoria. Quella donna insegnava ai militari come dar
sepoltura ai caduti, sia italiani sia austriaci. Aveva per tutti una buona
parola, aiutava gli infermieri nelle medicazioni dei feriti e sapeva dare una
buona parola ai moribondi. Essi mi raccontavano che era solita dire nel triste
compito delle sepolture: “testa al
nord e scarpe al sole”.
Tutti l’ascoltavano perché aveva un cuore grande.
Apprendevo sempre nuovi particolari sui protagonisti di quel film nelle lunghe
notti nevose sotto il Canin al confine con la Jugoslavia. Ricordo che c’era
anche un vecchio con noi militari che riandava spesso ai propri passati
ricordi di guerra.
Trascorrevamo così le fredde sere della Carnia,
accanto ad un focolare e bevendo un bicchiere di vino. Spesso intonavamo
qualche canzone ed era bello stare assieme e dare un po’ di gioia a quella
povera gente sotto il Canino. Appresi anche che la donna, protagonista dei
film, una volta finita la guerra era tornata al suo paese ed aveva aperto una
piccola osteria ed aveva finito i suoi giorni terreni in silenzio. Prima di
morire, però, aveva avuto la soddisfazione che qualcuno si ricordasse di lei
conferendole la medaglia al valor militare.
E’ un paio d’anni che mi ritornano in mente con
insistenza la trama dei film e le mie vicende d’alpino vissute all’ombra
dello stesso monte Canin. Oggi purtroppo queste storie sembravo avere per la
maggior parte della gente poca importanza. Per me invece esse ne hanno
tantissima e credo che ne debbano avere per quanti sanno pensare e giudicare
con testa e cuore.
Pederobba, aprile 2002.
Bepi Sartor