Storie dei nostri veci |
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TONI COVRE |
L’artigliere alpino Covre, che al rientro della divisione in Italia aveva sostituito Prati nelle mansioni di attendente di Serri, allorché gli autocarri raggiunsero una depressione del terreno e gli uomini perdettero di vista le minacciose sagome dei carri armati, estrasse dallo zaino la pagnotta ricevuta in partenza e con un sorriso non del tutto sereno disse all’ufficiale medico: «E’ meglio mettere al sicuro il pane, prima che rispuntino quei bestioni. Ho preso io anche la vostra razione, signor tenente, c’è mezza pagnotta a testa, la mangiamo». Fece due o tre tentativi di spezzare il pane con le mani, ma con grande disappunto non vi riuscì. Appoggiò la pagnotta ad un ginocchio e premette inutilmente con tutte le forze.
«Questa è bella!» esclamò sconcertato rigirando il pane e guardandolo con sdegno. Aveva mani enormi, forti e dure come mazze, proporzionate alla statura gigantesca. Nella batteria era nota una sua prerogativa: quando montava la tenda di Serri e non aveva a portata di mano un martello, con tutta indifferenza usava conficcare i picchetti nel terreno tempestandovi sopra col pugno nudo. La mano spesso sanguinava, ma le asticciole di legno affondavano immancabilmente nel suolo della steppa.
«Niente da fare Covre - disse Coltrin, il puntatore del primo pezzo, che aveva seguito gli sforzi dell’attendente - per romperlo devi adoperare la baionetta come ho fatto io, e poi non riesci lo stesso a tirarne via un boccone, ti saltano i denti e quello resta com’è. E’ di pietra ormai, per il gelo. Non vedi che nessuno ne mangia? Non si riesce. E’ la Russia: bisogna tenersi la fame col pane in tasca»
Da “Centomila gavette di ghiaccio”, Cap XVI.
«L’autore affida al lettore la storia di un esiguo reparto; omettendo gli autentici nomi ha voluto deliberatamente trascendere le singole persone, perché questa è stata davvero la storia di tutti gli alpini, e perché in essa tutte le madri possano intravedere i volti dei loro figli e riviverne la storia di dolore e di morte. L’affida, ancora, ai compagni sopravvissuti, a testimonianza del loro inaudito patire; l’affida a quanti vogliono tener vivo il ricordo di coloro che non tornarono.»
Così scriveva Bedeschi nella prefazione del suo libro. Lo stesso autore compare nella vicenda con il nome di Ten. Serri. Tutti non autentici, quindi, i nomi dei protagonisti di “Centomila gavette di ghiaccio”.
Tutti meno uno: Toni Covre di San Fior, Treviso.
Nel 1944 Covre era un ragazzone che a poco più di vent’anni si era già fatta la campagna di Albania nella 13° batteria del gruppo Conegliano, 3° Artiglieria Alpina della Julia. In Russia divenne attendente del tenente medico Bedeschi. Smontata dal treno a Isium, la batteria aveva affrontato la traversata della pianura di Ucraina per avviarsi verso il Don. Era agosto, la marcia cominciava prima dell’alba e la batteria si fermava a sera, dopo aver percorso 35-40 chilometri, presso qualche villaggio della steppa. Toni Covre, ricordava il suo tenente, brontolava per il caldo, le mosche, la polvere, il sole, la fatica, il rancio, l’acqua, i muli e tutta la naja nel suo complesso ed ogni suo particolare, ma, quando era ora, sgobbava come un mulo. Un classico alpino.
Col passare dei giorni Bedeschi notò che troppo spesso il suo attendente aveva il polso fasciato da stracci sanguinolenti. Cominciò allora a tenerlo d’occhio fino a quando venne a capo dell’oscuro perché. Succedeva (ed al giorno d’oggi sembrano favole) che gli attendenti dei vari ufficiali facevano a gara tra di loro a montare la tenda, per avere la soddisfazione di essere il primo a dire con un largo sorriso: “sior tenete, la sua tenda la xe già pronta...”. Soltanto che martelli e mazze ce n’erano ben pochi e sassi nemmeno uno in quella steppa tutta terra. Sicché Covre, quando non riusciva ad arraffare un qualcosa di pesante, in quei primi minuti dopo l’”alt” si inginocchiava sul terreno a menar pugni a mano nuda sui picchetti di legno, che affondavano sì nella terra ma si macchiavano di sangue assieme alla cordicella che l’attendente girava subito intorno al picchetto e tirava in un lampo, per saltare su poi come una molla e dire che la tenda era pronta e dare occhiate di traverso agli altri attendenti ed ai teli delle loro tende che sventagliavano ancora all’aria della steppa e pendevano inerti dai paletti. Il tenente proibiva, sbraitava, minacciava ma all’indomani aveva ugualmente la tenda pronta per primo e l’attendente con le mani insanguinate.
Nacque così poco a poco tra Bedeschi e Covre una intesa, un senso di protezione reciproca che durò per quanto fu lunga la campagna di Russia e finì per farli uscire tenendosi per mano da Novossergiewskj durante la ritirata, come è narrato in un altro passo di “Centomila gavette di ghiaccio”. Due uomini che si tengono per mano sulla neve, ansando e sfuggendo da un paese ormai accerchiato, non è cosa da poco; è una cosa che non si dimentica mai...
Di Toni Covre dopo la guerra Bedeschi perse subito le tracce; per quanto cercasse e si informasse non riuscì a sapere più nulla all’infuori della notizia che era immigrato nel Belgio, a guadagnarsi la vita lavorando negli alti forni. E dopo qualche anno corse voce che era andato a finire addirittura in America, non si sapeva se nel Nord o nel Sud, e la speranza di riprendere contatto col vecchio amico si ridusse al lumicino.
Passarono così molti anni e quando nel 1963 Bedeschi finalmente pubblicò il suo libro sulla sfortunata campagna di Russia e modificò i veri nomi di tutti i personaggi, trovandosi dinanzi al nome di Covre non si sentì di alterarlo. E lo lasciò così com’era. Sentiva dentro nell’animo che quella decisione per lui significava un omaggio al ricordo del più lontano, introvabile, irraggiungibile e forse il più umile tra i rimasti vivi della sua batteria. Voleva essere il suo un ricordo nostalgico, un saluto nell’acqua profonda del mare che non si sa dove giunge ma si sa che arriva fin dove non si può né stare né andare se non con il cuore.
Dopo due anni, di là dall’Oceano Atlantico, Covre rispuntò. Scrisse al suo tenente una lettera indirizzandola alla casa editrice; spiegò che il libro era arrivato in Argentina, era stato letto dagli alpini emigrati laggiù, che gli avevano detto: «Guarda, leggi qui, si parla di uno che si chiama Covre come te...».
«Sior tenente...» cominciava così la lettera di Toni Covre, e Bedeschi fu felice di pensarlo di nuovo vivo dopo una incertezza ed un silenzio durati più di 20 anni. L’attendente raccontò al vecchio tenente del suo duro lavoro, del suo matrimonio con una italiana anch’essa emigrata, dei due figli, e della nostalgia per l’Italia, la stessa nostalgia che si era manifestata durante la permanenza in Russia. Una cosa soprattutto rintronava di continuo nel cervello di Bedeschi: il pensiero che lui non era mai riuscito ad andare in America, mentre in America erano arrivati i compagni di cui aveva scritto; loro sì erano arrivati fin là, avevano scovato Covre, erano andati a far tremare la sua grossa mano... Si compiaceva di quanto ancora essi contassero, anche se erano morti. Perché contavano davvero se riuscivano a trovare i vivi da una parte all’altra del mondo...
Bedeschi scrisse al capitano Zumin che era il presidente della Sezione ANA dell’Argentina e gli chiese se era una buona cosa il cercare di far tornare Covre in Italia. Ed ebbe risposta affermativa. Non era però facile trovare lavoro per uno che stava in Argentina, non si poteva fargli attraversare il mare senza sicurezze. In Italia doveva trovare un lavoro buono, sicuro e dalle sue parti. Alla fine, grazie alla comprensione di altri alpini, il dott. Scaramuzza, presidente della Sezione di Pordenone, e l’alpino Plazzotta, saltò fuori un lavoro alla “Rex”.
Bedeschi poté così scrivere a Covre e gli chiese se voleva tornare.
«Mi capitò a casa a Milano - raccontò in seguito Bedeschi - d’improvviso, di notte, come quando sul fronte russo mi svegliava di soprassalto con una zampata contro il telo da tenda, perché un artigliere alpino aveva la colica. Soltanto questa volta aveva al seguito la sua giovane moglie e due bellissimi bambini, e veniva da venti giorni filati di navigazione, la famiglia Covre rimpatriata al completo. Quando se ne andò la notte stessa, perché la terra di Milano gli bruciava sotto i piedi al pensiero di essere a sole sei ore di treno dal suo paese, Toni Covre era rimasto quello d’allora. E mi pareva che in strada dovesse trovare la batteria per intero, com’era allora quando ancora non mancava né un uomo né un mulo, allineata e pronta a muovere verso il giorno nuovo sulla steppa di Russia»
Per Antonio Covre, protagonista di uno dei racconti più belli tra quelli che narrano del sacrificio degli alpini, non è stato facile ricordare. Perché i ricordi possono pesare, e non è stato facile ricordare in una sola volta la Russia, le lunghe marce nella steppa, la ritirata, venti anni di dura emigrazione, il caro tenente e tutti gli altri amici che non ci sono più. Ed i paletti che affondavano insanguinati nel suolo piatto della Russia sconfinata.
Gianfranco Dal Mas