EROI SENZA NOME |
Aprile 2005 |
L'Ottantesimo di fondazione della Sezione Alpini di Conegliano coincide con un altro
importante evento da celebrare: il Sessantesimo anniversario del sacrificio del comandante partigiano
Pietro Maset: Maso l’Alpino.
Una figura esemplare quella di Maso.
Sottotenente Alpino in Albania nel 1939, Tenete Alpino in Grecia nel 1940 decorato con medaglia di bronzo
al valor militare e in Russia nel 1942.
Poi in Friuli a presidiare i confini ed infine, dopo 18 settembre, comandante partigiano sulle montagne, con
al suo fianco gli Alpini che lo avevano conosciuto e che avevano combattuto con lui.
Spina nel fianco delle truppe nazifasciste, il 12 aprile del 1945 a Malga Ciamp, in comune di Budoia, il
capitano Pietro Maset viene colpito alla fronte, forse da un cecchino, dopo che lui e i suoi uomini avevano inferto
dure perdite ai tedeschi in rastrellamento.
Lo Stato italiano gli conferirà la Medaglia d’oro alla memoria con la seguente motivazione: "Valoroso ufficiale
dell’esercito in s.p.e., animatore e trascinatore, fu tra i primi ad organizzare il movimento partigiano in Friuli.
Creò, animò e comandò la V Brigata dell’Osoppo, assurgendo a popolarità per le sue gesta eroiche e per la perizia di comandante.
Dopo un poderoso rastrellamento effettuato dal nemico nel dicembre del 1944 in Valcellina, non volle abbandonare la montagna allo scopo di
ripristinare con i suoi uomini il completo dominio e vi trascorse l’intero rigido, inverno, assoggettandosi con
eccezionale tenacia a privazioni e sofferenze che hanno dell’inverosimile.
Attaccato nuovamente da forze soverchianti,
si batté da eroe infliggendo al nemico gravissime perdite, finché colpito mortalmente in fronte cadde fulminato,
tramandando alla memoria la leggenda”.
Per ricordare questo Eroe-Alpino, a cui è intitolato uno dei cinque Gruppi di Gonegliano, Fiamme Verdi
pubblica il racconto del Vicepresidente della Sezione Giorgio Visentin “Eroi senza nome”, dove la figura di Maso, pur
non essendo trattata direttamente, emerge in tutta la sua grandezza.
Quello di Visentin è un racconto breve, ma dì straordinario realismo, in grado di trascinarci là, dentro il buio di una
cella, dove l’olezzo si mischia all’umana paura, con due vite in balia della barbarie che la guerra può generare, fino
a farci capire come la lealtà verso il comandante e l’ideale, possa essere preservata a costo della vita (a.m.)
Le inferriate alla finestrella, che con
l’ombra gettata squadravano il pavimento, gli rendevano intollerabile l’afa opprimente di quegli ultimi giorni di
luglio.
Fuori, la pianura restituiva impietosa,
come un rovente afflato della terra, la vampa del solleone.
Sentiva il sudore colare dalla fronte,
scivolare lungo le infossature delle tempie, ammollare fastidiosamente il collo della camicia e la schiena. La sete gli
infiammava i polmoni ed era molto peggio della fame che pure gli contraeva con spasmi lancinanti lo stomaco vuoto da due
giorni, da quando lo avevano preso.
Molto, molto peggio anche del dolore alla
mascella.
All’imbrunire, l’acqua putrida dello
scolo dietro la caserma del Fascio esalava fetori marcescenti e nugoli di zanzare che toglievano fiato e riposo.
Una guardia sorvegliava la porta della
cella. Ne vedeva gli occhi fissarlo dallo spioncino e le mani sbrigative che gli passavano il goccio d’acqua
giornaliero, ne udiva il respiro e i passi annoiati nel corridoio, ma mai la voce.
Rannicchiato sul lurido pagliericcio alla
parete più distante dal bugliolo, pieno e nauseabondo, intrecciava nervosamente le mani ragnate di graffi e contusioni
con le unghie nere di terra e sangue rappreso. Per fortuna il labbro spaccato non sanguinava più e il dolore ora gli era
più sopportabile.
A momenti gli cresceva forte la voglia di
cedere poiché il suo giovane corpo chiedeva prepotentemente di vivere ma la salvezza, e lo sapeva, non era che una sola:
parlare.
Rivelare l’identità del suo comandante
partigiano che guidava con perizia le formazioni dell’Osoppo sulle alture friulane del Cavallo e che si faceva
chiamare Maso.
Era già stato interrogato da un
ufficiale, i baffi stretti da topo e gli occhi vicini, a spillo, freddi, sotto il basco nero della Xª Mas, ma dai modi
distaccati, quasi garbati che lo sorpresero non poco.
Un sergente, calvo e rotondo, armeggiando
su una vecchia dattilografica e usando lisi fogli di carta carbone, batteva a due dita il verbale in più copie.
Ma stavolta ci fu ben poco da scrivere,
perché non disse nulla di quello che realmente volevano sapere, neanche la sua età. Ammise solo, e con i documenti che
gli avevano trovato addosso era difficile negarlo, che era un patriota, che amava l’Italia e che l’aveva già servita
come alpino della Julia prima che venisse occupata dal tedesco.
-E va bene.-
fu il laconico commento dell’ufficiale ordinando che lo riportassero in cella.
All’inizio era soltanto un fischio. Un
sibilo irregolare e dolente. Certe volte sembrava incagliarsi, piantarsi quasi, in un gorgoglio raschiato che si
spezzava di colpo per poi riprendere con un rantolo penoso e straziante che gli faceva accapponare la pelle.
Cercò di non sentire premendo le mani
sulle orecchie, accucciandosi contro la parete con la fronte sulle ginocchia, ingannando se stesso fingendo di dormire.
Infossò la testa ancor più tra le braccia
conserte, le palpebre strette, le labbra serrate e il collo irrigidito dalla consapevolezza che invece era ben sveglio
quando aveva udito i passi scomposti delle guardie che trascinavano qualcuno di peso per il corridoio, quando aveva
visto la porta aprirsi con violenza, quando veniva colpito dal tonfo di quel corpo gettato come un sacco per terra,
proprio ai suoi piedi.
E fu quel gemito rantolante a ricondurlo
alla realtà.
Fu costretto ad aprire gli occhi e non
poté più far finta di essere in un incubo, di non averlo visto per davvero perché, anche nella penombra di quel
cantuccio di cella, aveva percepito, nell’informe ammasso di cenci e sangue, il brillare di un occhio aperto a
contrastare l’altro, gonfio e violaceo come una prugna marcia.
E quell’occhio lo puntava.
Si fece forza e scivolò fino a lui a
quattro zampe, come i gatti.
Aveva paura di guardare perché sapeva ciò
che avrebbe visto, ma l’odore del sangue che a rivoletti usciva da tutti gli orifizi di quel poveretto e il lezzo acre
dell’orina e delle feci che ne macchiavano gli abiti lo scossero del tutto.
Non sapeva cosa fare, così gli alzò il
capo.
-Ma tu sei...
L’altro lo zittì subito con un sibilo
prolungato.
...Jugo!- avrebbe voluto dire.
Jugo, partigiano anche lui, un vecio del
Feltre chiamato così perché era riuscito a tornarsene dai Balcani a piedi. Una settimana prima aveva chiesto il
permesso di andare a trovare giù in paese moglie e figli senza poi dare più notizie di sè.
Non sapeva cosa dire, così gli chiese:
-Ti fa male?-
All’altro scappò un colpo di tosse, secco
come una risata isterica. Uno sputo rossastro e vischioso gli si stampò sulle braccia e si accorse di quanto stupida fosse stata la domanda.
-A me mi hanno preso due tre giorni
fa, sono caduto (come un mona, avrebbe voluto aggiungere) in un
rastrellamento mentre portavo un messaggio al comandante e adesso vogliono sapere chi è, capisci? Ma io non ho
proprio nulla da dire.-
Dall’altro venne un sibilo che si piantò
sui denti spezzati e le gengive spaccate.
Era un sorriso? Gli aveva sentito come
una bolla scoppiare all’angolo di quello che restava della bocca. Era importante, se lo era, quel sorriso per lui, così
si fece coraggio e alzò gli occhi sulla sua faccia devastata. Ma ce li tenne poco, perché quello che vide gli rovistò lo
stomaco d’autentico terrore per quello che poteva capitargli.
-No, davvero,-
disse alzando la voce per farsi coraggio e magari per farsi sentire da quello che stava
dietro la porta -...e poi, cosa dovrei dire? In montagna ci sono da poco, mi fanno fare la staffetta da un gruppo
all’altro, conosco tutti solo con il soprannome, non so altro. Mi dovranno credere!-
Aveva parlato in fretta e non sapeva
quanto forte, così lanciò un’occhiata allo spioncino sperando di scorgere i soliti due occhi inespressivi. Invece
niente.
Sentì che l’altro si muoveva. Cercava di
farlo tra sospiri di dolore.
Pensò che volesse sistemarsi meglio e
allungò le mani per aiutarlo a sollevarsi, ma appena gli sfiorò le costole urlò di sofferenza. Quello, allora, gli
artigliò le dita e lo attirò a sé fissandolo con l’unico occhio buono.
Sibilò ancora, sforzandosi di articolare
le parole.
-Non parlare... io non ho parlato...-
gli sembrò che avesse detto.
-Neanch’io, stai tranquillo, parlerò.
Non dirò niente, niente, neanche se... neanche se...- ma non riuscì a finire
la frase. La voce gli si spezzò in gola, scivolandogli in fondo fin dentro le viscere.
L’altro parve capire e gli strinse le
dita più forte che poté.
-...e poi, cosa vuoi che dica?
continuò -Davvero, che cosa potrei mai dire? Il Turco, Pagnoca, Falco, Sandokan...
Cosa vuoi che se ne facciano i fascisti di un soprannome come Maso se non so chi è o... o da dove viene? Sì, ne
distinguo un po’ la faccia e i lineamenti, a malapena mi ricordo se ha i baffi o la barba lunga come un frate o una
cicatrice o il naso grosso e basta!-
Si accorse che l’altro aveva allentato la
stretta e lo guardava con l’occhio che a stento riusciva a tenere ancora aperto. A lui venne da piangere.
-Voglio dire,-
e la voce s’incrinò –che se mi chiedono ancora qualcosa di Maso io non dirò niente,
come ho fatto finora, lo giuro sulla Madonna, ma se cominciano come a te...come a te...-
Adesso singhiozzava piano e il petto gli
sussultava con fremiti sempre più incontrollati.
Jugo alzò a fatica la mano e gli prese la
sua.
Rabbrividì nel vedere che alcune dita, al
posto delle unghie, avevano un nero grumolo gelatinoso.
-Dio Dio, perché?-
piagnucolò -Perché proprio io?-
-Italiano (o forse era partigiano?)- sibilò l’altro, o almeno così gli sembrò, tra i
denti spezzati e un fiotto di sangue.
-Sì... ma io ho appena vent’anni, non
sono mica un eroe io, non voglio morire, e poi...e poi devo badare anche ai miei vecchi...invece tu, tu sì che sei un
eroe...io no, io ho paura...tanta paura. Dio Dio...-
L’altro scosse la testa
impercettibilmente. Soffiava, scoppiava di saliva, sangue e pus nella bocca maciullata.
Lo tirò piano a sé come per rivelargli un
segreto o un qualcosa d’importante.
Allora si abbassò sulla sua faccia
gonfia, l’orecchio vicino alle labbra, e lo sforzo di sentire faceva altrettanto male di quello di parlare.
-Non sono un... eroe,-
decifrò tra i gemiti e le pause infinite -sono solo un... uomo, un... alpino.-
Poi smise di stringere senza però
lasciargli la mano, fece scivolare la testa di lato, sfinito, e riprese a sibilare col suo gorgoglio penoso e
straziante.
La palpebra si abbassò e come una
saracinesca vi chiuse dentro l’ultimo brillio dell’anima.
Rimase a piangere un altro po’, poi
risucchiò indietro il groppo in gola con una secca tirata di naso, come quella dei bambini, e si appoggiò di schiena al
muro, sotto la finestrella, perdendo lo sguardo e i pensieri nella penombra.
Si rivide pochi mesi prima, giovane
recluta dell’8°, smarrito in un cappello e in un’uniforme più grandi della sua taglia, chiamato, assieme a tanti della
sua classe, a riempire i paurosi vuoti della Julia appena rientrata dal Don.
E poi l’8 settembre, lo sfacelo
dell’esercito, la fuga, il bando di Graziani, la scelta di andare in montagna con i fazzoletti verdi dell’Osoppo,
perché lassù c’era Maso, il capitano della sua compagnia là in caserma a Tolmezzo, eroe di Grecia e di Russia.
Una bandiera e una sicurezza per i suoi.
Un nemico implacabile, una spina nel fianco per i repubblichini ma anche per quei garibaldini che strizzavano
troppo l’occhio a Tito che, come gli aveva confidato una volta, voleva prendersi Trieste e mezzo Friuli.
E poi l’avevano preso.
Stava risalendo l’altopiano lungo il
sentiero del Patriarca, l’antica strada remèra della Serenissima, quando, poco prima della faggeta, rintocchi di
bronzo avevano interrotto il suo faticoso ansimare e i suoi passi.
Si spandevano pieni e chiari nelle larghe
sonorità dell’Ave Maria serale sopra la campagna addormentata che li assorbiva senza restituirne l’eco.
A ponente, dove vapori grigiastri
nascondevano la curvatura dell’orizzonte, erompeva l’ultimo alone del sole morente che s’arrosava e s’aranciava.
In alto, come il destino per gli uomini,
nubi colorate e gaie come le vigne d’autunno si raggrumavano e sfilacciavano a seconda degli imperscrutabili capricci
del vento. L’aria sapeva di muschio e ciclamino.
Che pace.
Si era seduto sull’erba sognando di
essere a casa, vide la madre a quell’ora farsi il segno della croce mentre scodellava la polenta fumante sul tagliere e
gli strilli felici dei suoi fratelli più piccoli, sempre affamati e con il cucchiaio già in mano.
La malinconia lo prese a tradimento.
E in quell’istante in cui collassano le
energie e la ragione si offusca di lacrime, si sfilò lo zaino e lo posò a terra. La fronte pesante di tristezza gli calò
su un ginocchio.
Che dannata debolezza.
Forse dormiva, un sonno buio e senza
sogni.
Tra tutti i fruscii, gli intrecci d’ombra
e i frastagliati respiri della natura non si accorse di quelli alieni che s’avvicinavano furtivi. Nemmeno l’improvviso
silenzio del bosco riuscì ad avvisarlo della minaccia.
Il calcio del fucile lo colpì sulla bocca
spaccandogli le labbra con uno schiocco che risuonò sui denti, secco come un ramo che si spezza.
Certo che lo conosceva, Maso. E bene anche!
Ogni tanto, quando scendeva al piano a
raccogliere informazioni e a portare messaggi, Maso gli chiedeva di passare per casa a salutare i suoi genitori e poi
anche la signorina Cati, la maestra del paese, la sua morosa, per dirle che stava bene e che non si preoccupasse per
lui, che continuasse a preparare il corredo che, finita la guerra, l’avrebbe sposata.
E quando ritornava sul Cavallo, avuta assicurazione che tutto andava bene, gli vedeva luccicare gli occhi, a Maso.
Lo conosceva bene, Maso. Eccome se lo conosceva!
Se i fascisti avessero saputo chi era,
avrebbero bruciato il villaggio, preso in ostaggio i suoi familiari, anche Caterina, e chissà cos’altro avrebbero fatto.
E Maso, lo sapeva bene, si sarebbe subito
costituito. L’avrebbero massacrato di botte, umiliato, appeso come una bestia ad un gancio da macellaio al pennone del
municipio.
E un eroe che piange per la morosa, come ognuno di loro, non può finire così, no no!
Fuori faceva buio. Il canto dei grilli e
il gracidare delle rane riempivano quella notte afosa di fine luglio 1944.
Dentro, si sentiva solo il fastidioso
ronzio di mosche e zanzare attirate dal facile banchetto di un uomo inerme. Il sibilo dolente di Jugo s’era lentamente
affievolito e spento, lasciandolo solo con le sue paure.
Poi la porta si aprì di schianto e un
uomo, grande e nerboruto, con una canottiera sudicia entrò nella cella investendolo con una vampata di luce.
Vedendolo tutto rannicchiato e rigato di
lacrime, scoppiò in una risata oscena scoprendo un dente di metallo che mandò un bagliore sinistro.
Alzò il braccio come un manganello e
glielo puntò con l’indice teso che cominciò a piegare ad uncino, graffiando l’aria, come si fa per chiamare qualcuno.
-Vieni bello, vieni da mamma tua,-
disse sghignazzando.
Cercò sostegno contro la parete. Tutto il
suo corpo cominciò a tremare come una foglia.
-...ora tocca a te assaggiare le mie
carezze!-
Si sentì bagnare i pantaloni e se ne
vergognò.
-E così neanche il più giovane ha
parlato, maledizione. Eppure mi sembrava così fragile e debole...- sbottò
stizzito il tenente della Decima osservando dalla finestra del suo ufficio i due corpi, due fagotti assediati da un
nugolo di insetti famelici, che spenzolavano, uno per parte, ai rami del grande platano della piazza come macabro monito
per tutti.
-Maso, intanto, stanotte ha
sbaragliato il presidio cosacco di Maniago e ha fatto saltare il ponte sul Cellina mentre passava un treno carico di
munizioni e di truppa.
I tedeschi sono furibondi... mi hanno
sollevato da terra!-
-Gliel’avevo detto io che quelli non
parlavano.- ribadì il sergente. -Alpini sono, teste dure come i muli.
Neanche il loro nome hanno detto, niente, niente, anche se Bimbo li ha lavorati per bene e alle sue maniere pochi
resistono.-
-Sì, due bravi soldati. Peccato. Ne
avessi io così...- ammise l’ufficiale, sfilando una sigaretta dalla
tabacchiera, con un timbro di rispetto misto ad ammirazione.
-Lasciali lì fino... anzi, al diavolo
i tedeschi, vai subito dal prete che dia loro degna sepoltura. Se lo meritano!-
Poi, continuando a guardarli, come
parlando a se stesso mormorò: -I xé forti i alpini, i xé propio forti sti fioi de cani.-
Giorgio Visentin
Maso, Pietro Maset di Scomigo,
valoroso capitano dell’8° alpini (medaglia di bronzo in Grecia e d’argento in Russia), poi mitico comandante della
Vª brigata partigiana dell’Osoppo, cadrà in circostanze oscure a malga Ciamp, sulle pendici del monte Cavallo, il 12
aprile 1945.
Gli sarà conferita la Medaglia d’Oro al V. M.
La sua Cati non ha mai smesso di aspettarlo.