GIORGIO VISENTIN |
Maggio 2004 |
Anche settembre se ne stava andando. Quella mattina il
mare irrequieto, schiacciato da un cielo ingorgato e plumbeo, trasudava sabbia
e chiazze di mucillagine mentre la curva linea dell’orizzonte si nascondeva
nella bassa foschia lattiginosa.
Lontano, nubi nere, tagliate a fette da lampi isolati e
vibrate dal brontolio attutito dei tuoni, scivolavano veloci verso il largo
preannunciando l’ultimo temporale estivo. Solo le montagne, a nord,
sembravano sfuggire a quella morsa autunnale ed il profilo delle prealpi
veneto-friulane si stagliava nitido sull’infinito, azzurro e pulito.
Il lungomare di Jesolo, verso il faro, era deserto.
Solo un uomo, un vecchio, con un maglioncino annodato
sulle spalle e i calzoni arrotolati alle ginocchia, camminava sulla battigia
sfiorando con i piedi scalzi la lingua spumosa delle onde.
Miro avanzava lentamente, attraversando incurvato i
profumi del mare e dei pini marittimi, la testa china, come contando i passi o
cercasse le conchiglie più belle.
Dall’hotel Royal venne un gruppo di anziani
vacanzieri tedeschi. Gli ultimi. Conversando tranquillamente e tra isolati
schiocchi di risate, incuranti del tempo minaccioso, si diressero come sempre
verso i loro posti in spiaggia, con gli ombrelloni ancora chiusi e le sdraio
ben ripiegate, per respirare e
fare scorta di iodio per il loro crudo inverno.
L’uomo si fermò ad osservarli, non certo per
curiosità ma spinto da un vago senso di malinconia e di vuoto pensando a sua
moglie che non c’era più. Un groppo in gola gli serrò il respiro.
E sedette. Sedette sulla chiglia di una barca tirata a
riva, capovolta.
Alcuni gabbiani, in cerca di cibo sotto la scogliera
frangiflutti, erano posati sullo specchio più calmo del mare e si facevano
cullare dalle onde, altri veleggiavano in alto, con i loro striduli richiami,
ad ali spiegate. Liberi e regali. Bellissimi.
Una coppia ritardataria uscì dal Royal: una donna dai
tratti aristocratici, bianca nei capelli ma ancora bella, avvolta in un ampio
accappatoio rosso, e un uomo, alto, e biondo ancora, nonostante l’età.
Erano preceduti da un cagnolino di razza, bianco, riccioluto e con un
fiocchettino al collo, che zampettava frenetico con il naso all’insù,
inebriato dai mille afrori che il mare mosso portava con sé.
L’uomo seduto sulla barca ebbe un brivido che gli
trapassò, come una stilettata, la spina dorsale facendolo inarcare tutto
d’un colpo.
“No, no.-
si disse, troppi anni erano passati.
Quando la distanza tra i due diminuì, Miro poté
guardare meglio. “No, è impossibile.
Non può essere lui anche se…”
eppure, quella mascella quadrata con la fossetta era la sua, come pure i
capelli a spazzola… e poi l’incedere, il portamento altero ed autoritario,
gli occhi freddi… anche.
Corrugò la fronte tirando bene la vista, ma presto
dovette arrendersi perché le pupille, velate dalla cataratta, gli facevano
male a fissare così a lungo. “Il
solito scherzo della vita. Ma
guarda un po’ alla tua età, Miro, cosa vai a pensare.” concluse
rilassandosi e chiudendo quei pensieri con una virgola d’ironia.
La coppia scese i pochi scalini di legno che portavano
alla spiaggia con prudenza e l’uomo, con una piega galante, allungò il
braccio per dare sostegno ed appoggio alla compagna la quale, in cambio, gli
regalò un sorriso. Un sorriso da donna ancora innamorata.
Nel farlo, l’uomo si girò di spalle mostrando alla
base della nuca, appena sotto l’attaccatura dei capelli, una voglia
brunastra a forma di mezzaluna, poco più grande d’una moneta.
- Oh, Dio!- Una
botta a tradimento al suo cuore stanco che cominciò a martellargli nel petto
con spasmi lancinanti mentre la fronte s’imperlava di sudori freddi. Un
senso di vertigine gli attanagliò tutto il corpo.
- Il capitano. -
sussurrò, ma forse era un gemito.
E d’improvviso la mente di Miro si riempì di
stridori di freni, di cigolii di chiavistelli e rumori metallici di vagoni che
si aprivano seguiti dal frastuono lacerante di ordini urlati e di scudisciate
su decine di schiene inermi.
E i suoi occhi ebbero davanti ancora quei volti scavati
dall’umiliazione, dal pianto e dalla paura.
Rividero quei corpi ossuti, rinsecchiti dalla fame e
asciugati dalla sete, che si perdevano nelle uniformi grigioverde, o quel che
ne restava. Resti di un esercito abbandonato dal re, da Badoglio e dalla
patria matrigna alla mercé di un nemico, il tedesco, divenuto padrone
assoluto della loro vita.
Ed erano uomini, quel giorno, che venivano spinti giù
dal treno piombato nelle campagne aperte dei palù della Livenza, per
respirare una boccata d’aria, per liberare il corpo, per muovere le membra
anchilosate, per togliere di dosso il fetore dei carri bestiame diretti in
Germania.
Uomini disperati che sognavano la fuga subito disillusi
dai mitra spianati delle guardie dislocate nei punti strategici dal loro
comandante.
Ordini secchi e autoritari gridati da un uomo alto,
biondo, con gli occhi duri e la mascella quadrata con la fossetta. Un capitano
delle SS che batteva ritmicamente il frustino sugli ampi calzoni dalla piega
perfetta che s’infilavano in alti stivali di cuoio nero, lucidi e
splendenti.
Accucciato ai suoi piedi, la lingua bavosa a penzoloni
tra una corona di forti denti, le orecchie ritte e gli occhi vigili, un cane
lupo dal pelame maculato, corto e ben curato.
Un prigioniero, con uno scatto repentino, cercò di
tuffarsi oltre la siepe che costeggiava la ferrovia per riprendersi la libertà.
E il lupo, silenzioso come un rapace, gli si slanciò alla caccia con ampie
falcate, con un balzo lo atterrò azzannandogli un polpaccio e poi mirò alla
gola.
Non bastarono le sue alte grida di terrore e nemmeno il
suo convulso scalciare a fermarne la ferocia.
E poi giunse il richiamo, uno solo: -Thor ! -, e il cane si
rialzò, con il muso sporco di sangue, mettendosi di nuovo a sedere, impettito
sulle zampe posteriori come un ussaro, pur continuando ad annichilire la
vittima con il suo sordo ringhiare.
Il capitano delle SS, con passo lento e misurato, si
avvicinò all’italiano che se ne stava rannicchiato a terra con le carni
sfregiate dalle unghiate e le mani serrate al collo per fermare l’emorragia
causata dai morsi.
Consapevole di avere su di sé gli sguardi di tutti gli
altri, giunto a due passi dall’uomo si fermò. Tutto avvenne come in una
scena al rallentatore.
In un clima irreale, reso ancor più sinistro dai
gemiti strozzati del ferito, platealmente l’ufficiale si sfilò i guanti di
pelle e li tenne arrotati in una mano. Con l’altra estrasse dal taschino
della giubba una tabacchiera d’argento. Prese una sigaretta senza filtro e
ve la batté un paio di volte sul coperchio cesellato per compattarne il
tabacco. Rimise in tasca la tabacchiera e al suo posto comparve un accendino cilindrico. Uno sfrigolio, uno solo, e la
fiammella ne guizzò fuori spavalda. Accese la sigaretta e vi fece due tre
profonde tirate, assaporandone il forte aroma.
Volute di fumo azzurrognolo si intrecciavano sinuose in
alto per poi dipanarsi e sciogliersi nel nulla, come i sogni.
Poi, come se fosse una cosa normale o ineluttabile, aprì
la fondina. Impugnò la Luger. Con uno scatto metallico spinse il proiettile
in canna. Tolse la sicura… aspirò un’altra boccata… Sparò.
La testa del prigioniero esplose come un’anguria
matura.
Alcuni sprizzi di sangue e materia cerebrale andarono a
stamparsi sugli stivali immacolati. Ancora un solo richiamo: -
Thor ! - e il cane, scodinzolando felice, cominciò a leccare.
Dieci minuti durò la sosta, non di più, e poi altri
ordini, altre percosse con il calcio del fucile, e - Schnell schnell ! - di
nuovo tutti dentro i vagoni, schiacciati l’uno all’altro come sardine, in
piedi come sigarette in un pacchetto per ore, per giorni ancora.
E all’arrivo, ma ancora non lo sapevano, sarebbe
stato ancora peggio. Per molti, un viaggio senza ritorno.
Come non sapevano che Miro quel mattino d’autunno era
là, appiattito dentro un campo di pannocchie assieme ad altri due compagni e
al Turco, il capo del loro nucleo partigiano.
Aveva da poco compiuto 24 anni, Miro, ma era già un
veterano di quella sporca guerra: artigliere della Julia era stato prima in
Provenza, poi in Grecia ed infine in Montenegro, schivando per un pelo la
Russia. Dopo il “si salvi chi può”
dell’8 settembre e lo sfascio dell’esercito regio, era riuscito a sfuggire
alle retate naziste e a tornarsene fortunosamente a casa, nell’alta
trevigiana. Ma non era finita e sui muri del paese venne affisso il minaccioso
bando di Graziani per l’arruolamento coatto di tutti gli uomini validi nelle
formazioni militari repubblichine.
- Tu sei un bravo
italiano, un patriota, un soldato esperto,- gli aveva detto il segretario
del fascio all’osteria, – domattina
ti aspetto. Uno come te, minimo minimo, lo fanno sergente.- allettandolo.
La sera stessa, invece, dopo l’ultimo bacio alla
morosa e messe due cose nello zaino, decise di filarsela come avevano già
fatto tanti della sua età.
Sotto il sole sbieco del tramonto aveva attraversato il
borgo, a quell’ora ancora animato: mentre ne rasentava i poveri muri di
sasso aveva incrociato facce stanche ed abbronzate di contadini che tornavano
dalle campagne dei Mocenigo con la falce in spalla, carri alti di fieno da cui
spenzolavano piedi scalzi di bambini, un paio di comari che si sbracciavano e
vociavano; più avanti, in uno slargo del Meschio, aveva udito i rimbecchi
delle donne al lavatoio mentre torcevano i panni bagnati in trecce bianche,
che poi sbattevano con vigore sul bordo di pietra dell’argine.
Era andato oltre senza fermarsi, senza girarsi,
forzando il passo e il cuore che volevano tornare indietro. All’ultima casa,
aveva abbandonato lo stradone e s’era buttato per i campi verso le falde del
Cansiglio dove aveva saputo che c’erano i garibaldini. Camminò veloce su
per il sentiero del Patriarca, l’antica strada remèra
della Serenissima, quando, poco prima della faggeta, rintocchi di bronzo
avevano interrotto il dolore dei pensieri. Si spandevano, pieni e chiari,
nelle larghe sonorità dell’Ave Maria
serale, sopra la campagna
addormentata che li assorbiva senza restituirne l’eco. Si era seduto su un
masso. Miro con lo sguardo cercò l’ombra della sua casa, immaginò la madre
farsi il segno della croce mentre scodellava la polenta fumante sul tagliere,
vide la sua sedia vuota attorno alla tavola e sentì gli interrogativi, senza
risposta, dei suoi fratelli più piccoli.
La fronte, pesante di tristezza e di inquietudini, gli
calò su un ginocchio.
Corvo
l’avevano chiamato i suoi nuovi compagni per via della penna, nera come
l’inferno, che spiccava sul cappello d’alpino che s’era portato dietro
per ripararsi la testa dal freddo e dalle intemperie.
Stavano minando i binari quando l’onda lieve di una
vibrazione aveva lambito le piante dei loro piedi. In lontananza intravidero
un pennacchio di fumo, come di un falò di sterpi, che si stiracchiava e si
allungava in alto ed avevano sentito l’ansimare faticoso del treno che
s’avvicinava. Ma non era quello blindato che aspettavano, carico di
munizioni, proveniente da Udine come li avevano informati. Questo veniva dalla
parte opposta, da Conegliano, probabilmente un convoglio passeggeri o un treno
ospedale.
- Presto presto,
via boce.- aveva detto il Turco. –Nascondiamoci
in mezzo alla biava, l’esplosivo lo mettiamo dopo quando questo è passato.-
E Miro s’era lanciato a corpo morto nei solchi,
facendosi largo con le mani protese a scudo per proteggersi il viso dalle
larghe foglie affilate come lame del granturco, sentendosi i fianchi
allacciati nel viluppo, finché s’era abbandonato sul terreno che aveva
preso ad urtargli furiosamente il torace al ritmo del suo cuore mentre il
trepestio delle ruote ferrate era diventato, nel frattempo, assordante.
Ma quel maledetto treno s’era fermato proprio lì.
E, attraverso i gambi fitti e nodosi delle piante, fu
costretto a spiare, a vedere, a patire.
In quel groviglio che lo rendeva invisibile, sentì il
sudore colargli copioso dalla fronte, scivolare lungo le infossature delle
tempie, ammollare le ciocche dei capelli dietro le orecchie trafiggendogli la
nuca di brividi freddi. Di fronte a quelle scene, Miro si sentì inumidire gli
occhi mentre una rabbia cieca e sconosciuta gli montava dentro con sempre più
prepotenza. A poco a poco i vestiti inumiditi gli si erano incollati
fastidiosamente alla pelle, con cautela prese il fazzoletto e se lo annodò al
collo poi masticò nervosamente uno stelo d’erba per spegnere un improvviso
senso d’arsura che gli bruciava i polmoni. Ma il sollievo fu di breve durata
procurandogli appena una forte deglutizione di densa saliva che lo lasciò con
la gola ancor più secca e riarsa. Ogni altro rumore che il ronzare monotono
degli insetti s’era spento, solo ad intervalli uno storno o un passero non
più intimiditi da quella ingombrante presenza umana frullavano brevi parabole
da una pannocchia all’altra.
Solo quando l’ufficiale nazista sparò a bruciapelo
al soldato italiano gli uccelli fuggirono spaventati.
Le mani di Miro invece cercarono il fucile.
Quasi avesse capito le sue intenzioni, o forse perché
erano le stesse, il Turco gli posò una mano sulla spalla e gli parlò con lo
sguardo: “Lo so cosa provi, Corvo, ma
siamo solo in quattro e non possiamo fare nulla, nulla, per quei poveretti,
capito? Ci faremmo ammazzare inutilmente. Aspetta, verrà anche il momento
giusto per saldare il conto.”
Proprio allora il capitano delle SS, dopo essersi
accertato che i vagoni fossero chiusi, si diresse verso un cespuglio di
corniolo, distante una decina di metri dalla ferrata. Dopo una veloce
ispezione dei dintorni e rassicurato dalla calma di Thor, ubriacato dal lezzo
con cui quell’umanità aveva impregnato l’aria, si sfilò lo spallaccio
della pistola che appoggiò con cura a
terra, si slacciò la cintura calandosi i pantaloni e vi si accovacciò
dietro.
Dal bordo superiore del fogliame arrugginito spuntava
solo la sua testa. Miro vide il tedesco togliersi il kepì e con un fazzoletto
tergersi con cura la fronte, le guance, il collo ed infine la nuca su cui, in
netto contrasto col biondo dei capelli, spiccava una voglia brunastra a forma
di mezzaluna, poco più grande d’una moneta.
Dai vagoni piombati cominciò a salire un lamento
lugubre. Il capitano zufolava tranquillo, sprezzante, mentre il lupo si stirò
in un lungo sbadiglio.
Era troppo. Miro imbracciò il fucile e lo puntò
contro quella testa bionda.
“Te la faccio
saltare come una boccia, bastardo d’un nazista, boia assassino!”
pensò, digrignando i denti dalla determinazione di fargliela pagare, di
farla finita. Fece un respiro profondo, trattenne il fiato per non alterare la
stabilità del braccio e collimò il mirino proprio su quella moneta scura
appena sotto l’attaccatura dei capelli.
Un tiro facile facile.
L’indice stava già solleticando il grilletto
dell’arma, ancora una lieve pressione e…
“…capitano
kaput.” Una bestia in meno.
Un brusco spintone gli abbassò l’arma.
Il Turco lo stava fissando dritto negli occhi, quasi
volesse incenerirlo: “Stupido coglione ! - gli trasmetteva il suo sguardo di fuoco. –
Credi forse che non lo farei io per primo? E poi, e dopo? Non hai
pensato alle rappresaglie contro quei poveri prigionieri e contro i civili dei
paesi qui attorno? Metti giù subito quel fucile! ”
Del tutto ignaro di ciò che stava avvenendo a cinque
passi da lui, il capitano tedesco intanto si era rialzato. Si riassettò lo
spallaccio, con un colpetto della mano si lisciò i pantaloni e, seguito da
Thor, risalì nella carrozza-comando.
Un solo gesto della mano e il treno, con il suo carico
di dolore, riprese il suo ansimare verso il filo spinato dei lager.
A terra rimaneva, le braccia aperte come un cristo in
croce, un povero soldato italiano, un calabrese, come si verrà a sapere poi
quando il prete gli darà pietosa sepoltura, annegato e smarrito in una
vischiosa pozza di sangue.
Miro si passò la mano che tremava come una foglia
sugli occhi ancora persi nei ricordi, come per scacciare un incubo. Si rivide,
ancora stordito, uscire dal suo nascondiglio ed imboccare come un automa il
viottolo che correva parallelo alla ferrovia. Incurante dei richiami insistiti
del Turco seguì quel sentiero che affondava, dopo un centinaio di passi, in
una macchia di pioppi e noccioli, grande ombra irta contro il cielo, e lì
poter finalmente dare sfogo a tutta la sua impotenza piangendo come un
bambino.
Ed ora l’incubo era tornato, si era materializzato,
era là.
Un abbaiare insistito lo scosse del tutto.
Il cagnolino peloso, quasi avesse intuito ciò che
quello sconosciuto provava per il suo padrone, stava ad una spanna dai suoi
piedi e lo puntava con fare aggressivo.
Un solo richiamo: -Thor! -
e l’animale si ritirò dietro l’uomo che stava avanzando verso Miro
con passo misurato e sicuro.
- Scusi signore,- disse in un buon italiano, pur mantenendo una cadenza gutturale - è prima volta che mio cane comporta così. Ma come dite voi qui
Italia, se memoria ricorda bene, “cane che abbaia non morde”, ja?- e
si lasciò andare ad un sorriso compiaciuto.
- Parla molto
bene la nostra lingua…- gli fece Miro, mascherando alla meglio i suoi
sentimenti.
- Io amo Italia.
Sole, mare, buono mangiare e vino…Prosecco, Chianti… mmmh! -
l’interruppe l’altro, facendo schioccare le labbra deliziato
- Giotto, Michelangiolo, Verdi… Roma, Firenze, Venezia…- una breve
pausa, quasi per rimarcare maggiormente la battuta successiva
-…e terme di Abano, sa noi vecchi con dolori ossa, ah ah ! -
e rise.
Miro, contrariamente a quanto si aspettava il tedesco,
rimase impenetrabile.
Quegli, allora, dalla tasca dei pantaloncini estrasse
una tabacchiera d’argento, l’aprì e gliel’allungò con fare amichevole.
Spingendo in avanti il palmo della mano aperta Miro
rifiutò l’offerta.
Il tedesco sfilò una sigaretta senza filtro, la batté
un paio di volte sul coperchio cesellato per compattarne il tabacco e
l’accese alla fiamma di un bell’accendino d’epoca, cilindrico.
Ne inspirò con gusto due tre boccate, poi volse lo
sguardo verso le montagne e continuò: -
Io fatto guerra qui. Anche lei stato soldato?-
Annuì.
- Ach,- sbottò
il tedesco come se non aspettasse che questo
–voi italiani prima camerati, amici di Germania, poi cambiare, tradire
Mussolini e nostro grande fuhrer.-
- Era una guerra
non nostra e per giunta mal preparata,- lo affrontò Miro
– eppure l’abbiamo combattuta con valore, su tutti i fronti. Io sono
stato fortunato, se fossi finito in Russia non sarei più tornato, come tanti
miei amici. Quando ho capito, sono andato su quelle montagne…-
e le indicò alzando il mento, quasi a sfidarlo –
a fare il partigiano.-
- Partizan ! - esclamò l’altro, con gli occhi che sembravano schizzargli dalle orbite,
scagliando rabbiosamente il mozzicone per terra. –
Partigiani non soldati, banditen, banditi, colpire alla schiena soldato
tedesco poi scappare come conigli, così noi costretti fucilare povera gente e
voi dare colpa soldato tedesco cattivo.-
- Quella era
diventata la nostra guerra ! - replicò
Miro. –Era l’unico modo per liberare
la nostra terra e salvare l’onore dell’Italia. Non c’erano altri mezzi.
Eravamo in pochi lassù in montagna, senza armi né cibo. Ma avevamo un
ideale, una speranza, un sogno da realizzare. E quante volte siamo stati
fermati dal timore delle vostre feroci rappresaglie sulla popolazione…-
Eventi ormai remoti, nascosti nelle pieghe del tempo ma
che ora, quasi si fosse aperto un cancello nella sua mente, ne uscivano
scalpitando e Miro si sentì inghiottire nuovamente dal vortice impetuoso dei
ricordi.
- io una volta, proprio sotto quelle montagne, potevo e volevo uccidere un
ufficiale delle SS. Se lo meritava perché l’ho visto assassinare a sangue
freddo un nostro soldato che cercava solo di fuggire da un treno piombato
diretto nei campi di concentramento, ma
non l’ho fatto ed è questo che mi pesa perché chissà quante altre
porcherie avrà commesso quel… Non l’ho fatto per evitare ai civili
ulteriori sofferenze e lutti… sicuramente ha presente cosa intendo, vero?
C’era forse anche lei a Marzabotto?... o a Pedescala? … o a Boves?…-
- Guerra è guerra,- cercò di controbattere il tedesco, troncandogli le parole
–sempre stato così. Anche milioni di donne e bambini di nostre città
morire sotto bombardamenti americani.-
Miro ignorò la comparazione e, continuando a fissarlo
dritto negli occhi, gli scendeva dentro, sempre più giù fino a scavargli
l’anima.
Il tedesco, allora, cercò di proteggersi abbassando lo
sguardo. Ma Miro non gli diede scampo: -Se
ne stava accucciato dietro un cespuglio… quella sarebbe stata la giusta fine
per uno come lui: il superuomo beccato proprio nell’attimo di debolezza più
umana e nello stesso tempo più indecente. “Caduto mentre stava cacando”
avrebbero detto e scritto, che bell’epitaffio per quel grande e nobile eroe,
eh? - e questa volta, accentuando il tono sarcastico, si permise un
sorriso di scherno. – Niente fanfare e
medaglie, niente cavalcate di valchirie, niente paradiso dei Nibelunghi per
uno che si presenta al cospetto di Odino con le brache alla caviglie, ah ah!
- e mai risata fu più dirompente. -
Lo zimbello del Reich sarebbe diventato, il soggetto di barzellette salaci e
di allusivi sottintesi ad animare le serate dei suoi commilitoni nei circoli
militari e nei bordelli.- E si divertiva Miro perché ad ogni sua parola
l’altro si faceva sempre più piccolo e stravolto.
- La sua testa bionda ce l’avevo proprio sulla punta del mio fucile, a soli
cinque metri, e poi avrei steso anche il suo cane lupo… Thor, si chiamava,
me lo ricordo bene. Thor, come questo suo delizioso cagnolino peloso, solo che
quell’altro non abbaiava, no, ma come mordeva e martoriava e straziava.-
Il tedesco, fulminato dalla rivelazione, come un pugile
colpito allo stomaco sembrò piegarsi in due e cercò di fuggire arretrando
d’ un paio di passi, cèreo e ragnato di rughe in viso.
Ma Miro gli tagliò la ritirata: -In tutti questi anni ho sperato che ciò che non ho potuto fare io
l’avesse fatto un russo o un americano o un altro partigiano o che magari ci
avesse pensato il Dio della giustizia, invece… Ma forse è meglio così,
perché adesso lui… lei sa, ja?-
Aveva ragione il Turco, prima o poi, quando meno te l’aspetti, il
passato torna a presentare il conto. E va pagato, sempre.
Per uno strano, incredibile ed imperscrutabile scherzo del destino Miro ora
aveva l’opportunità di estinguere il suo debito con il proprio e di fugare i
fantasmi che ogni notte, resuscitando dalle pieghe oscure della storia, gli
turbavano i pensieri.
Una possibilità, una sola, e non l’avrebbe sprecata.
Oh, sì. Gliel’avrebbe sparata quella pallottola che per
cinquant’anni s’era portato dietro, pesante come un macigno, e che gli aveva
rotto il sonno e la coscienza.
E quanti “se” a pugnalarlo nelle lunghe notti in bianco: se
avessero fatto in tempo a far saltare i binari, chissà…; se anziché in quattro fossero stati di più, magari…;
se il Turco non lo avesse fermato, forse…; se… se… se…
Non ci sarebbe stato nessun timore di rappresaglia a fermarlo, stavolta.
Ma il colpo gliel’avrebbe tirato non alla nuca, a tradimento come fa un
bandito o un coniglio, bensì in mezzo alla fronte, guardandolo bene negli
occhi, perché doveva sapere che quella era la pallottola del disprezzo e del
disonore, la peggiore di tutte.
E quella, solo quella, gli avrebbe spappolato il cervello non una, ma mille e
altre mille volte ancora. Tutti i giorni. Tutte le notti. Sempre. Dovunque.
Miro emise un sospiro profondo, s’alzò dalla barca e s’avviò verso il
faro.
Fatti cinque passi si girò.
Come in una scena al rallentatore alzò la mano destra. Con l’indice teso e il
pollice ritto sagomò la forma di una pistola. Con voluta, spasmodica lentezza
allungò il braccio nella direzione del tedesco che lo fissava incredulo,
rattrappito, umiliato.
Un battito di ciglia, uno solo, lungo tutta una vita.
-Bang… capitano kaputt.-
Leggeri erano i passi di Miro e come cantava il suo cuore, ora.
Giorgio Visentin
PAROLE INTORNO AL FUOCO