GIORGIO VISENTIN


“Parole intorno al fuoco” è stato il tema di un concorso nazionale, per un racconto riguardante storie di alpini in guerra e in pace, bandito dalla Sezione di Treviso dell'A.N.A., per ricordare i 40 anni di fondazione del periodico “Fameja Alpina”. I lavori presentati (“di notevole e talvolta eccezionale interesse” si legge nelle motivazioni della giuria) sono stati 171; tra gli elaborati segnalati anche “Pietas” di Giorgio Visentin, un nostro alpino di Godega, già capogruppo, che, nel suo racconto che pubblichiamo integralmente, ricorda l'esperienza di Rossosch.

PIETAS

Sto guardando il telegiornale dell'una. Si prospetta il solito pomeriggio di questa strana estate il cui maltempo, in più riprese, ha messo ulteriormente in ginocchio l'economia di intere zone d'Italia, già di per sé prostrata, ingannata, umiliata da continui scandali e infiniti misteri. Se penso che da dieci anni in famiglia si risparmia su tutto per estinguere il mutuo sull'appartamento e da cinque lo stipendio è fermo nonostante il lievitare continuo dei prezzi... beh, ben venga allora anche “Affittopoli” a smascherare vergognosi privilegi di logorroici tribuni, nuovi soloni e falsi profeti.
- Dove andiamo più tardi? - Optiamo per i laghetti di Revine.
Passiamo per Cison. li richiamo è immediato, inequivocabile, perentorio.
Decido da solo. Neanche il tempo di sentirmi brontolare: - Ma dove diavolo stai andando?! - che siamo già al Bosco delle Penne Mozze.
- Uffa papà, sempre con 'sti alpini! - protestano i miei figli, 18 e 11 anni, quando ne scorgono i simboli ai margini del parcheggio, ma noto che l'impatto con il nostro Sacrario, a loro finora sconosciuto, è positivo.
- Bel posto, però! - commentano, e mi fa piacere poiché ne approfitto subito per intrufolarmi nell'inaspettata breccia e, mentre c'incamminiamo, parlo loro del significato e della valenza che gli antichi Romani davano al termine “PIETAS”. In poche parole spiego che la struttura di una società, quale la nostra, che vuole definirsi progredita, va edificata conoscendo innanzitutto il proprio passato e rispettando la memoria storica di persone, fatti, cose che l'anno preceduta, in quanto costituiscono la base dell'attuale emancipazione democratica, economica e civile.
Nella stretta gola il silenzio è raccolto, sovrano, religioso. Ecco, là a destra, le prime stele di bronzo annerito dove sono incisi i nomi degli alpini deceduti per cause di servizio in tempo di pace. Trovo quella di Guido, un compaesano, morto a vent'anni sotto le macerie della caserma di Gemona, accartocciatasi nel terremoto del 1976, assieme ad altri suoi coetanei della Julia. Unico figlio maschio, genitori annichiliti dall'immenso dolore e mai più ripresisi, una famiglia distrutta. - Ma non era nuovo ed antisismico quell'edificio? rimugino maledicendo gli impuniti speculatori.
Oltrepassiamo il torrente e ci inerpichiamo per un breve, ma ripido sentiero.
Tra le felci spuntano altre steli. Tante, allineate, uguali. Sono i Caduti in guerra; ripasso le località che li videro sfortunati protagonisti: Ossum, Postojali, Annowka, Vojussa, Belogorje, Ross... mi fermo inchiodato da un'ondata di ricordi, immanente travolgente impetuosa.

Un tuono, forte prolungato rabbioso, rotola giù dal S. Boldo accompagnato da una fredda folata di vento, foriera di pioggia imminente. Mi ritrovo a fluttuare in vividi flashback. Corre il pensiero, vola lontano e in un attimo è là. Improvvisamente, fisicamente, consciamente sono ancora a Rossosch, e dove se no? Fine luglio '92, IV turno dell'OPERAZIONE SORRISO. Anche questa sera, da una settimana ormai, il cielo è imbronciato. All'improvviso diluvia. Scrosci violenti di pioggia s'insinuano tra le fessure dei mattoni non ancora intonacati e rivoletti invincibili d'acqua melmosa scivolano nella catacomba-dormitorio, ricavato nello scantinato dell'asilo appena abbozzato, impregnando ossa e vestiario di fastidiosa umidità. Si convive con l'inconfondibile aria greve e stantia dei panni stesi ad asciugare (asciugare?) su fili tirati tra una branda e l'altra, quasi dei séparé.

Salta pertanto la consueta sortita all'esterno del cantiere dove ci aspettano affamati di dollari, di jeans e d'occidente i ragazzi del luogo con la loro mercanzia più disparata. E' un amaro dejà-vu: a ruoli invertiti sembra il remake del nostro immediato dopoguerra quando da noi arrivarono “i Mericani”. Mi vergogno un po' della nostra ostentata opulenza.
Così, alla fiocca luce di una lampadina volante, tanto per non andare a “dormire con le galline”, ci attiviamo in personali passatempi.

Nello stanzone accanto Beppe da Brescia, il “Barbun”, attacca con la sua fisarmonica e gli altri l'accompagnano con un coretto. D'un tratto smettono, c'è della concitazione, che succede? Don Angelo da Seriate, il cappellano, detto scherzosamente il “Sovietico” per la sua vistosa T-shirt con un bel “I love CCCP” regalatagli dai suoi ragazzi dell'oratorio, passa trafelato per il corridoio, infila la testa da noi: - Avete sentito? - esclama eccitato - Dopo Falcone hanno fatto saltare per aria anche Borsellino! - Ecco perché, intuisco collegando i fatti, questo pomeriggio un ragazzotto russo, sportosi sopra il muretto di cinta mentre svuotavo i banchi dell'immondizia, mi ha gridato sprezzante: - Taljanski mafia! - e io non sapevo capacitarmi di tale mortificante offesa. - Eh no, caro mio: - vorrei ribattergli ora “quella” non è l'Italia. Guarda qui dentro, in una buca di sei per quattro, qual è la “vera” Italia! -

Giacomo da Breganze, il “Vigile” per la sua ex professione, il più anziano, con un po' di balsamo si friziona le articolazioni doloranti. Mentre poi s'infila una fascia elastica sul ginocchio anchilosato si carica da solo: - ... ma mi no molo, perdio! No marco visita gnanca se me toca lavorar coe stampele, no voio che i diga che son qua in vilegiatura. - E chi ne dubitava “vecio”? Nazzareno da Bergamo, soprannominato “Pirata” per scaramanzia, sospira profondamente. Il volto trasuda inquietudine e preoccupazione mentre con delicatezza si riassetta la benda che gli copre un occhio. Forse ripensa ancor a quello schizzo maligno di calce viva che l'altro ieri quasi lo accecava. Sperun d'no lasar chi al me Uc, ostia! tenta di sdrammatizzare, ma mi viene lo stesso un brivido per il fondato timore di complicazioni.

Primo da Lucca, il “Toscano”, ex finanziere e qui cuciniere, espansivo e loquace, sta scrivendo delle cartoline. D'improvviso sbotta col suo tipico accento aspirato: - Tre giorni fa, otto, oggi dieci bolli ognuna ho dovuto attaccarci, non ho spazio neanche per la firma -. Ma poi, con cognizione velata da amarezza, aggiunge: - La Russia post comunista non è pronta a confrontarsi con l'economia liberista. Con il rublo a picco, le tensioni etniche e l'anarchia di mercato a rimetterci è sempre la povera gente, vi siete guardati intorno come vivono qui? E come la mettiamo con l'Armata Rossa umiliata? Tira aria di golpe, ve lo dico io! - (Qualche mese dopo infatti ... ) Dante da Tolmezzo, il “Cerniel”, forte come un toro, buono come il pane, gran mangiatore e bevitore, fin dal primo giorno lavora in un “buco” semibuio delle fondamenta.

Come Ciaula del Verga nelle viscere della solfatara, praticamente non vede mai il sole eppure, quando gli porto da bere, sento che canticchia da solo “Stelutis alpinis”. - Grazie “Fellini”, (mi chiamano così per via della telecamera) fa dandomi una robusta pacca sulle spalle - cosa si mangia oggi? - e mi sorride ammiccando. Ho capito: razione doppia!

Agostino da Mogliano, il “Sindaco” per averne ricoperto la carica, come ogni sera sta annotando nel suo diario alcuni aspetti peculiari della giornata. E' un libero professionista, ma qui è addetto alla betoniera che gira ininterrottamente per dodici ore di fila “mangiandosi” montagne di sabbia e cemento. - Che boca, fioi, che la gà! Dietro la fronte aperta e la piega sorridente della bocca maschera bene la stanchezza, ma ciò che non può proprio nascondere sono le mani screpolate e piagate da rosse vescicole. Gli chiedo: - Quante carriole di malta oggi? - Le xè, tante, tante... no le conto più. - Non l'ho mai sentito imprecare. Ecco, vorrei urlare a quel ragazzo, e con lui al mondo intero che probabilmente in questo momento ci deride, denigra, discredita, che l'anima dell'Italia è fatta di gente semplice, generosa, pulita... anonima come questa!

Subitaneo e razionale, però, mi pervade un senso di rassegnata impotenza: quando mai per i “media” i buoni esempi fanno notizia? Eppure anche il Bene avrebbe bisogno di “par condicio” per contrastare efficacemente il dilagare dell'edonismo e del vuoto di valori morali ed etici che attanagliano e sviliscono non solo le nuove generazioni, ma sempre più ampi strati del tessuto sociale.

Ed io? - Mansione aiuto cuoco - mi aveva detto Lino, una delle colonne dell'Operazione, salutandomi alla partenza. Di fatto, constatata la mia scarsa propensione ai fornelli, mi sono ritagliato il ruolo di cameriere ai tavoli della mensa e sguattero in cucina. Mi scappa un sorrisetto immaginando a ciò che direbbe mia moglie vedendomi con tanto di grembiule e canovaccio ad armeggiare tra pile di piatti e bicchieri, proprio io che in casa invento mille scuse pur di svincolare da simili incombenze.

- Perché ridi da solo? - mi riporta bruscamente alla realtà ella, nel frattempo (ma come ho fatto a rivivere tutto ciò in pochi battiti di ciglia?) sopraggiunta alle mie spalle. Sento rodermi la coscienza e vorrei dirle un sacco di cose, ma mi esce solo un banale - Ah, niente... niente... - e, imbarazzato, imbocco un altro sentiero. Mi riprometto di rimediare. Sento, intanto, i ragazzi che ogni tanto esclamano: Ancora... qui ce ne sono altri... guarda, anche di là... ma quanti sono? - Vorrei rispondere: Migliaia, ma li conosciamo tutti, uno per uno - ma poi rifletto che da buoni “figli” della televisione, delle griffes e dell'informatica potrebbero interpretarla come la solita frase retorica e stereotipata, così taccio e li lascio da soli a confrontarsi con il loro montante turbamento. Quando li raggiungo, stanno composti ed assorti davanti alla statua della Madonna, nostra “Mater dolorosa”. Noto che ai suoi piedi hanno deposto un mazzolino di ciclamino di bosco, il nostro Bosco, e stanno recitando una preghiera. Senza volerlo, senza saperlo anche loro sono “inciampati” nell'invisibile cordone ombelicale che si unisce indissolubilmente a Quelli che “sono andati avanti”. Cominciamo a capire.

Ora so che non si faranno più le solite battute, tra il convinto e l'ironico, sul tipo: Ma che cavolo siete andati a fare in Russia un asilo, forse che qui non ce n'era bisogno? Rivivo nitidamente il momento della partenza per Rossosch quando mia suocera, con il volto segnato dalla commozione, mi disse: - Quando ch'el sarà lazò, al se ricorde de butar un fior sul Don e de dir n’Eterno Riposo par i me quatro compagni de scola che no i è pì tornadi, poreti... me racomando! -
Quell'asilo è la nostra preghiera, sublime profonda eterna. Averlo costruito proprio lì, in terra che fu nemica e ostile, è aver onorato un tacito giuramento fatto a tante madri che sono incanutite nella vana attesa e che non hanno avuto una tomba dove piangere e deporre un fiore. Era scritto, era ineluttabile: sul Don, prima o dopo, dovevamo tomare.

Il Don, per gli alpini un fiume sacro come il Piave... sobbalzo; dove l'ho messo? Prendo il portafogli e ne esamino trepidante ogni piega. Maledizione, vuoi vedere che inavvertitamente l'ho gettato?... No, eccolo qua: il foglietto è sgualcito, l'inchiostro a tratti è sbavato e alcune parole sono illeggibili, ma non importa, mi vengono tutte ora.

Ricordo di aver scritto quei versi d'impulso, senza pretese, solo per dare corpo e sfogo all'emozione che mi aveva preso quella domenica mattina, proprio sulla riva del fiume, mentre il mazzo di fiori da campo che vi avevo gettato per adempiere alla promessa veniva portato via dalla sonnecchiosa corrente. Dopo il nubifragio notturno, il cielo era di cobalto. Un'aria tersa, frizzante, settembrina. Alle mie spalle l'immenso mare d'erba fiorita ondeggiava lievemente ai capricci del vento emanando fragranze nuove, pungenti, intense. I raggi del sole, schizzando sulla superficie appena increspata dell'acqua, lanciavano intorno riverberi accecanti. Questi scomposti poi da diafani vapori, disegnavano in lontananza bagliori iridescenti. Su tutto aleggiava un'aura così soave e quieta che l'Io più segreto e recondito sublimava in ogni sua molecola.

Apro il foglio e rileggo piano: PIETAS

Giorgio Visentin

PAROLE INTORNO AL FUOCO