GIORGIO VISENTIN |
Dicembre 2001 |
Racconto classificatosi al primo posto alla VI^ edizione del premio nazionale "PAROLE ATTORNO AL FUOCO", sul tema – Genti, soldati e amanti della montagna: storie e problemi di ieri e di oggi.
Il concorso nazionale annuale di
letteratura alpina "Parole intorno al fuoco" è promosso e
sponsorizzato dalla Sezione ANA di Treviso. Vi partecipano numerosi
narratori di tutte le regioni d'Italia, alpini e non alpini, essendo
ormai la manifestazione letteraria una delle più note tra quelle che
hanno per tema la montagna e la sua gente di ieri e di oggi. Dell'ambito premio Giorgio Visentin ha occupato tutti i gradini del podio , essendosi classificato terzo nel 1996, secondo nel 1998 e primo nel 2001. Avere tra i nostri un alpino scrittore non è cosa di tutti i giorni, per cui abbiamo ritenuto doveroso (ma ne siamo anche orgogliosi) dedicare a Giorgio un sito all'interno del nostro www.anaconegliano.it Bravo Giorgio. |
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"E'
un uomo sempre in prima linea Salomon – ebreo, alpino, partigiano,
guida dei coloni e difensore della Terra Promessa- la cui storia
percorre quasi per intero gli eventi più tragici del secolo. Una storia
che si intreccia con quella del palestinese Ibrahim per cui mano morirà.
Uomini e popoli risultano portatori, ciascuno, di proprie ragioni che li
rendono nemici. Ma la "larga e dolce spirale di quiete" che
avvolge Salomon nell'attimo della consapevolezza della fine, appare come
anelito e auspicio di pace per una nuova umanità. La narrazione limpida
e scarna quanto convincente e suasiva, scevra da ricercatezze e
compiacimenti formali, arricchisce di suggestioni trascinanti la vicenda
e la figura del protagonista.”
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PROLOGO
Salomon Zevi era nato nel 1913 in un mezzanino al quarto piano dell’edificio che
fin dal ‘600 ospitava il banco rosso, il monte dei pegni, situato nel ghetto
nuovo di Venezia. Quando all’ottavo giorno fu portato alla sinagoga di
rito sefardita per la circoncisione, il neonato fu iscritto nel registro della
comunità ebraica con il nome antico della famiglia, alla moda russa e con tanto
di patronimico, prima che venisse italianizzato:
Salomon Moisejevic Dzevinskij.
I Dzevinskij venivano da Rowno, una città della Volinia, dove
gestivano un fruttuoso commercio di pelli siberiane, tappeti persiani, broccati indiani e sete cinesi che esportavano in tutta l’Europa
occidentale.
A Rowno, la piccola comunità ebraica viveva appartata e non aveva mai subito
gravi casi di intolleranza religiosa da parte della maggioranza ortodossa come
invece era accaduto altrove, soprattutto in Polonia e in Ucraina.
La situazione mutò velocemente dopo l’inaspettata e dura sconfitta patita nel
1905 dai Russi a Tsushima dalla flotta giapponese. Nella Duma
si formò un agguerrito movimento politico antisemita che spinse lo zar
Nicola ad indicare negli ebrei, tacciati di disfattismo e di illecite
speculazioni, la causa dell’umiliante trattato di pace.
Violenti pogrom scoppiarono un po’
dovunque, anche nella sonnolenta Rowno.
Un pope esaltato che brandiva in alto una croce infuocata guidò la folla
inferocita contro i nachaltsvo, i
gatti grassi ebrei: la sinagoga venne data alle fiamme e poi la stessa sorte
toccò ai magazzini e alla ricca casa dei Dzevinskij che furono bastonati a
sangue, derubati di tutto e ridotti sul lastrico senza che la polizia muovesse
un dito.
Nel 1907 il patriarca Eli Abrahamovic prese la dolorosa decisione di trasferirsi
a Venezia dove i Dzevinskij avevano lontani parenti. Con l’aiuto della comunità
israelitica veneziana, Eli e suo figlio Moisè riaprirono i loro traffici di
import-export di pelli e sete raggiungendo in pochi anni una solida situazione
economica. Nel 1912 Moisè Dzevinskij, che nel frattempo aveva preso in mano le
redini dell’azienda, per approfittare maggiormente delle agevolazioni fiscali
emanate dal governo per portare la nostra economia a competere con le altre potenze europee,
chiese ed ottenne la cittadinanza italiana traducendo così il cognome in Zevi.
Lo stesso anno si sposò con Miriam, ultimogenita di
un’antica famiglia ebrea di Ceneda che deteneva il monopolio della produzione bacologica dell’alto trevigiano.
Allo scoppio della Grande Guerra anche Moisè venne mandato al fronte. Morì sul
Sabotino durante la quarta battaglia dell’Isonzo. Miriam fu costretta a cedere
l’azienda e alcuni anni dopo si risposò con un agiato avvocato ebreo di
Torino dove si trasferì con il piccolo Salomon.
Qui egli visse un’infanzia serena, frequentò le scuole migliori
distinguendosi sempre per l’alto profitto. Contro la volontà del patrigno il
quale voleva che anch’egli seguisse l’avvocatura, si iscrisse al politecnico
laureandosi a pieni voti in ingegneria meccanica. Nel 1937 Salomon fu chiamato
alle armi: dopo la Regia Accademia militare di Aosta, venne assegnato al 5°
Reggimento artiglieria da montagna della Pusteria di stanza nella caserma Calvi di Tai di Cadore.
SALOMON L’ EBREO
Il giovane tenente entrò nell’ufficio del comandante e scattò sull’attenti in
un impeccabile saluto.
- Mi voleva signor colonnello?-
Di antico casato sabaudo, il colonnello Eugenio di Robilant, era un vecchio
soldato che aveva combattuto gli Austriaci sull’Ortigara e sul Pasubio. Di
modi spicci e sbrigativi, sapeva imporsi alla truppa con forte personalità e,
da esperto competente qual era, conosceva i suoi uomini e sapeva distinguere un
buon ufficiale.
E il tenente Zevi lo era.
“E ora come faccio a dirglielo ?- rimuginava tra sé mentre, con
visibile imbarazzo, teneva gli occhi bassi su un documento che girava e rigirava
nervosamente tra le mani - Quei maledetti
idioti di Roma, quei...quei miserabili leccapiedi di Hitler ! Dove andremo a
finire di questo passo se eliminiamo anche gli elementi migliori ? Povera Italia
!
E il re... il re che ci ha guidato con coraggio alla vittoria dopo
Caporetto, perché non interviene... perché ? Non si accorge che Mussolini ci
sta portando alla rovina ?”
Fremeva di sdegno, ma era un soldato e come tale si sarebbe comportato.
Finalmente si decise: - Tenente, ho
qui una comunicazione appena giuntami dallo Stato Maggiore che la riguarda...-
vincendo il disagio, alzò lo sguardo e incrociò quello del suo subalterno in
cui traspariva rassegnazione, sconforto, umiliazione. Il giovane ufficiale aveva
già capito, in quel periodo tirava una brutta aria per gli ebrei.
La sentenza gli penetrò nel cuore come una scalpellata. -...in
ottemperanza all’art. 4, comma 2, delle Leggi Razziali
n° 1390 del 5.9.38 - anno XVI - il tenente Zevi Salomon fu Mosè, di
razza ebraica, deve essere privato dei gradi e radiato dall’Esercito Regio.
Il provvedimento ha decorrenza immediata.-
Tra i due
uomini calò un silenzio glaciale che sembrò durare un’eternità, poi il
colonnello si fece forza e disse:
- Tenente, voglio che sappia che la considero uno dei migliori ufficiali
che io abbia mai avuto...e ora vada. Consegni le sue armi e la divisa al
furiere...il cappello no, quello lo tenga, lo ha sempre onorato e se l’è
guadagnato sul campo.
Lei è un alpino, uno di noi, per sempre. -
Poi
si alzò, salutò militarmente e gli porse la mano.
Salomon non tornò a Torino, ma si fermò presso lo zio materno il quale,
riconoscendone le doti manageriali ed organizzative, fu ben lieto di affidargli
la direzione di una grossa filanda nell’opitergino.
Nel settembre del ‘39 i Tedeschi scatenarono la guerra e l’Italia li seguì
nel giugno successivo quando la vittoria sembrava già in tasca. Ma dopo i primi
entusiasmi vennero le batoste su tutti i fronti, lo sbarco alleato in Sicilia,
il dissolvimento dell’esercito dopo l’armistizio, l’occupazione militare e
le deportazioni dei nostri soldati nei lager tedeschi. Nell’autunno del ‘43 il popolo rialzò la testa e diede
inizio alla resistenza armata contro
i nazisti e i fascisti di Salò.
- Scusi ingegnere, - disse la segretaria avvicinandosi -
c’è un signore che desidera conferire urgentemente con lei. Non ha
però voluto dirmi chi è. Ha insistito...ha ripetuto che è questione
importante...-
Ma l’uomo
era già alle spalle della donna. Portava un lungo pastrano scuro col bavero
alzato, in testa teneva calcato un cappello
dalle larghe tese che gli celava mezzo volto. Con un movimento cortese ma deciso
della mano scostò la segretaria.
- Perdoni la mia maleducazione ingegnere ma non ho tempo da perdere,
neanche lei...- il tono pacato della voce emanava autorevolezza, lo sguardo
determinazione. Salomon capì che quell’incontro gli avrebbe cambiato la vita.
Congedò la segretaria e fece cenno all’ospite di accomodarsi, ma quegli tagliò
corto con i convenevoli e continuò:
- ...fra poco i tedeschi
saranno qui per arrestarla, lo fanno con tutti gli ebrei. Deve mettersi in
salvo. Lei è stato un ufficiale degli alpini, come me, venga con noi in
montagna...ah, mi perdoni se non mi sono presentato prima...sono il capitano
Nanni e comando un’unità partigiana dell’Osoppo sul monte Cavallo. Venga
con noi, abbiamo bisogno di uomini come lei, è l’unica possibilità che
abbiamo per salvare l’onore dell'Italia di fronte al giudizio degli Alleati.-
“Allora è proprio vero, - pensava intanto Salomon -
non sono chiacchiere quelle che parlano di retate di ebrei, di intere famiglie
scomparse, di campi di concentramento, di treni piombati verso la Germania...e
io che mi ostinavo a non crederci !” e poi, per fugare l’ultimo dubbio, chiese: -
Chi l’ha mandata da me? -
-
Il generale di Robilant. E’ stato il mio comandante in Grecia e in
Francia. Ora sta organizzando la guerriglia partigiana nelle Langhe. Prima di
lasciarci mi ha fatto il suo nome: “Cerca
un certo Salomon Zevi, un soldato in gamba, un bravo ufficiale. Sta dalle parti
di Treviso, ti sarà molto utile.” non
è stato facile rintracciarla, ma eccomi qui.-
La sera stessa, con lo zaino sulle spalle e il suo vecchio cappello
d’alpino in testa, risaliva a piedi i ripidi costoni pedemontani sopra
Mezzomonte assieme a Nanni e ad altri giovani che non avevano risposto al bando
di Graziani.
Da quel momento, per via di quel suo sguardo penetrante e del naso affilato e
leggermente arcuato, per tutti i fazzoletti
verdi della brigata “Valcellina” dell’Osoppo, Salomon divenne “Falco”.
Non c’era guerra in Palestina, ma ogni giorno sulle riarse alture del Golan
meridionale si combatteva l’eterna battaglia contro la miseria e la sete.
Ahmed, il druso, zappava il terreno rubato faticosamente al pietrame desertico
mentre il piccolo Ibrahim, il suo unico figlio maschio, sorvegliava che le capre
fameliche non invadessero l’orticello devastandone i freschi germogli.
Egli lavorava al mattino presto, prima che s’alzasse il caldo torrido del
giorno e poi, caricati alcuni otri sul basto del suo asinello, scendeva alle
verdi rive del Giordano, che scorreva sinuoso a due ore di cammino, per fare
scorta d’acqua. Cinque volte al giorno, inginocchiato e prono verso la Mecca,
chiedeva solo di vivere e lo faceva in una povertà dignitosa, pregando che il
cielo gli si mostrasse misericordioso e riservasse ad Ibrahim, sua speranza di
riscatto, una sorte più benevola.
Ogni sasso tolto era una preghiera e, giorno dopo giorno, ai margini del podere
s’alzò un monticello pietroso, grande
e alto come la sua fede.
-I Tedeschi, i Tedeschi !- un grido incrinato dalla paura scosse dal
sonno i partigiani raggomitolati in piccole buche coperte dalla ramaglia. Nanni
fu il primo ad imbracciare il mitra e a prepararsi alla difesa. - Laggiù
laggiù comandante, stanno salendo su tre file...vogliono accerchiarci...sono
tanti - spiegò ansimando Bill, il
giovane partigiano di vedetta
-...hanno anche i cani!-
Il comandante
studiò la situazione scrutando con il binocolo i movimenti precisi e coordinati
del nemico. Capì subito che lo scontro sarebbe stato impari quindi chiamò
Falco, il suo vice, dicendogli: - Raduna
gli uomini e portali oltre cima Palantina. Io, Tempesta e Valdo cercheremo di ritardare
l’avanzata dei tedeschi proteggendovi la ritirata. E ora vai...-
Falco lo interruppe - No capo,
resto io qui. Gli uomini hanno bisogno di te...-
- Taci! Questo è compito mio, è dovere di comandante dare l’esempio,
capito? Ricordalo sempre, e ora va’,
presto, hanno individuato le nostre postazioni e stanno caricando i mortai...se
Dio vuole ci rivedremo fra un paio di giorni alla malga dei Loff. -
Ma Nanni non arrivò mai alla malga. Una settimana dopo, Falco scese a valle
e da una staffetta di Barcis seppe che il suo comandante, nel disimpegnarsi dal
nemico dopo alcune ore di strenua difesa, era incappato in un reparto di
cosacchi che nel frattempo avevano chiuso l’operazione a tenaglia. Fatto
prigioniero venne consegnato ai fascisti che lo torturarono e infine
l’impiccarono ai rami del grosso tiglio, il secolare albero della Regola,
davanti alla chiesa di Polcenigo, lasciandovelo penzolare come macabro monito
per quattro giorni prima che il prete, mosso a pietà, vincendo nugoli di mosche fameliche e sfidando la
tracotanza delle Camicie nere di
guardia, gli desse cristiana sepoltura.
Falco si dimostrò all’altezza del nuovo ruolo: con grande determinazione guidò
il suo gruppo partigiano a compiere numerose azioni di importanza strategica
contro le guarnigioni della Decima Mas e sabotando i convogli militari tedeschi
che transitavano lungo la Pontebbana e la linea ferroviaria. Di sentimenti
patriottici radicati, negli ultimi mesi di guerra si inimicò i commissari
politici delle locali formazioni partigiane comuniste filotitine, alleate
ideologicamente con gli Jugoslavi che a guerra finita volevano annettersi mezzo
Friuli. Una scelta che gli costò quasi la vita: una notte di aprile la baracca
che ospitava il suo gruppo saltò misteriosamente per aria. Falco scampò
miracolosamente all’attentato cavandosela con una leggera ferita al braccio,
ma ben cinque dei suoi uomini restarono sul terreno.
Alcuni giorni dopo arrivarono gli Americani ed egli, deposte le armi, poté finalmente riprendere la strada di casa.
Ridivenuto
Salomon Zevi, tornò a Torino in cerca dei suoi ma non vi trovò più nessuno.
Dai vicini di casa seppe che sua madre era stata prelevata nottetempo dalla
Gestapo e portata chissà dove. Non si fece illusioni: circolavano già notizie
sulla Shoah e sulla sorte degli ebrei
nei campi di sterminio tedeschi. Si commosse e pianse ai racconti strazianti e
alle testimonianze orribili dei rari sopravvissuti. La mancanza di affetti
l’opprimeva così cominciò a frequentare la sinagoga avvicinandosi alla fede
e all’osservanza dei sacri precetti della Torah
che aveva precedentemente sempre rifiutato. Intanto, per il suo contributo alla
lotta partigiana ricevette un’alta onorificenza dallo Stato divenendo, in
breve, un preciso punto di riferimento per la comunità israelitica torinese
sopravvissuta all’Endlosung, la
soluzione finale.
Un pomeriggio del 1946, mentre stava sovrintendendo ai lavori di
restauro della Mole, la loro sinagoga danneggiata dai bombardamenti, Salomon fu
avvicinato da un enigmatico personaggio che parlava un misto di italiano
stentato, di tedesco e di yiddish. La
sua vita stava per cambiare nuovamente. L’uomo era un fautore delle teorie
sioniste di Theodor Herzz, il nuovo Abramo, il cui ideale mirava alla fondazione
dello stato di Israele per riportarvi i superstiti della diaspora. Ora girava
l’Europa reclutando proseliti. Laggiù in Palestina accerchiati da tanti
nemici, gli spiegò, c’era bisogno di uno come lui. Una guida per i nuovi
coloni. Un soldato per difendere la Terra Promessa.
Nell’aprile del 1947, Salomon sbarcò a Jaffa ed entrò a far parte
dell’esercito clandestino sionista che combatteva
contemporaneamente su due fronti: contro gli occupanti inglesi e gli arabi.
Ebbero la meglio e l’anno dopo le Nazioni Unite riconobbero agli ebrei
scampati all’Olocausto il diritto di riavere, dopo duemila anni, uno stato proprio.
Ibrahim era diventato un uomo ormai. Issò di peso suo padre sull’asino e spinto dalle
baionette inglesi si accodò alla lunga fila di profughi palestinesi cacciati
dalle loro case, spogliati dei loro averi, privati della loro terra. Ma sarebbe
tornato e grande sarebbe stata la sua vendetta.
Ahmed, stancamente, si girò per l’ultima volta verso il tumulo di pietre che
in tutti quegli anni aveva alzato come tangibile riscatto della sua povertà. Per un attimo incrociò lo sguardo fiero del figlio e si
rasserenò: il suo dolore era salito fino ad Allah, non sarebbe morto nella
vergogna e nel disonore. Inshallah.
Il sole era a perpendicolo in un cielo terso e blu. Era un cielo senza nuvole che
inondava la stretta valle dello wadi
di luce impietosa. Cespugli spinosi a macchie isolate e bassi arbusti
rinsecchiti e stentati punteggiavano le pendici corrugate che scendevano a
precipizio su entrambi i lati del solco vallivo. Nulla che formasse la benché
minima ombra, nulla che si muovesse. Il canalone pareva senza vita. Ma c’erano
uomini laggiù. Aspettavano.
Il colonnello Salomon Zevi si accovacciò nascondendosi ancor più tra due
lastroni di roccia sfaldata imitando i rari animali che riuscivano a
sopravvivere nell’aria rovente del deserto del Negev. Si passò la lingua
sulle labbra riarse, asciutte e screpolate come la creta, e deglutì un po’ di
saliva per dare sollievo alla gola infiammata cercando di ignorare l’impulso
di prendere la borraccia che portava alla cintola. Non era il momento di bere.
Non adesso che il nemico si avvicinava. Nuvole di polvere si alzavano all’imboccatura dello wadi Abl el
Sheick che tagliava a metà, come una ruga profonda, il Sinai orientale per
finire nella piana di Hebron. Da lì il nemico, seguendo un’antica pista
beduina, avrebbe preso alle spalle le postazioni israeliane per poi puntare su
Gerusalemme.
- Lo sapevo, -
pensò Salomon trionfante - lo sapevo che sarebbero passati di qui. Io avrei fatto lo stesso !-
Un rapido sorriso da predatore gli solcò il viso sporco di polvere.
I riverberi di pozzanghere illusorie sulla sabbia arroventata, i miraggi di fata
Morgana, deformavano e ingigantivano a dismisura i mezzi che ancoravano e
frantumavano il terreno come dei mostri meccanici mentre il cupo sferragliare
dei cingoli faceva sussultare il terreno scuotendo lo stomaco degli uomini
pronti all’imboscata. Lanciò un’occhiata al giovane soldato steso al suo
fianco notando le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte e il continuo
tremolio delle mani che stringevano il lanciagranate. Gli diede un colpetto
forte e rassicurante alla spalla, svitò il tappo della borraccia facendo
attenzione a non sprecare alcuna goccia e gliela porse. Gli sovvenne il ricordo
della sua paura, alla prima battaglia, contro i fascisti ai piedi del Cavallo.
Vedeva ancora la caserma di Montereale dove erano stati rinchiusi dieci ostaggi
civili destinati alla fucilazione per rappresaglia e che i partigiani riuscirono
poi a liberare. Avevano impiegato tutta la notte per avvicinarsi all’obiettivo
strisciando silenziosi tra i magredi del Cellina. Quando era schiarito, Nanni
aveva dato l’ordine di attaccare la porta carraia. La reazione dei
repubblichini fu immediata, il sibilo e l’impatto delle pallottole gli
gelavano il sangue, il terrore di essere colpito gli intorpidiva le gambe e gli
stordiva la mente che credette di
svenire. Scacciò quel pensiero, era passata una vita e ora, nel 1956,
un’altra dura prova lo attendeva. Gli Egiziani avanzavano per distruggere la
sua nuova Patria. Scandagliò i pendii circostanti per verificare ancora una
volta se ci fossero segni visibili che potessero mettere sull’allarme i tanks
nemici e vanificassero il suo piano. Non ce n’erano. Bene. I suoi uomini
avevano eseguito perfettamente gli ordini restando immobili e ben nascosti tra
le rocce dello wadi: fra poco avrebbero raggiunto lo scopo di quei lunghi giorni
di preparazione, di perlustrazione, di snervante attesa. Il suo piano di
battaglia era semplice: aspettare che la colonna motorizzata nemica imboccasse
la stretta gola, attaccare di sorpresa con mortai ad alto esplosivo i tanks di
testa quindi spazzare via la fanteria che seguiva sui camion facendo uso di armi
automatiche.
- Devi essere freddo e rapido- gli aveva detto una volta Nanni - e,
se occorre, implacabile e spietato!- e Salomon era deciso a metterlo in
pratica. Un mastodontico T 34 di
fabbricazione sovietica apriva la colonna composta da una trentina di veicoli
ordinatamente schierati in fila indiana. Di fronte a quello spiegamento di
forze, la sicurezza gli venne meno. Chiuse gli occhi e la ritrovò in alcuni
versetti dei salmi che inconsciamente aveva cominciato a recitare : “Chi
è il Re della gloria? / Il
Signore, l’eroe in battaglia, / se
sta alla mia destra non vacillerò. / Se si accampa contro di me un esercito, / non teme il mio cuore, / il
Signore è mia luce e mia salvezza, / di
chi avrò timore?“
Quando tutti i mezzi furono a portata di tiro ravvicinato, impartì l’ordine
alle sue batterie di aprire il fuoco.
Potenti esplosioni squassarono il fondovalle alzando uno sciame impazzito di
schegge e detriti. Un carro nemico ruotò la torretta inquadrando la sua
posizione con il suo devastante cannoncino da 100 mm e lo investì con una
sventagliata di colpi. Salomon si gettò a terra urlando: - Usa
quel bazooka ragazzo, svelto, prima che ci facciano a pezzi. Muoviti perdio...-
Il giovane giaceva supino, colpito in fronte da una scheggia. Vedendo quel volto
lentigginoso, deturpato dalla
ferita mortale, gli sorse improvvisamente nella mente l’immagine intristita
della madre, una vedova polacca, che al momento della loro partenza per il
fronte non aveva occhi che per quel suo figliolo, bello e coraggioso,
arruolatosi per difendere la Terra Promessa. Allontanò quel ricordo. Più
tardi. Più tardi sarebbe venuto il momento del dolore.
Afferrò il bazooka e fece fuoco. L’improvviso spostamento d’aria lo scagliò
indietro lasciandolo intontito. Il tank, colpito in pieno dalla granata
perforante, sferragliò impazzito contro la scarpata rocciosa della gola
esplodendo in un turbinio di fiamme.
Impossibilitati a muoversi in quello spazio angusto, i corazzati nemici furono
facile bersaglio dell’artiglieria israeliana mentre gli egiziani superstiti,
in preda al panico, ruzzolando lontano dai camion in fiamme si esposero inermi
alle raffiche precise dei suoi
soldati che li abbatterono a grappoli. Le pallottole dirompenti delle
mitragliatrici avevano alzato un'impenetrabile coltre di sabbia fino alla
cintola dentro la quale i fuggitivi colpiti scomparivano come spettri urlanti.
In breve ogni resistenza fu spazzata via. Salomon prese il binocolo e frugò con
lo sguardo il campo di battaglia attraverso le dense colonne di fumo nero e di
polvere che mulinavano nello wadi e poi salivano in alto oscurando il cielo. Un
odore acre e irritante di esalazioni di carburante, di esplosivo e di gomma
bruciata aveva impregnato l’aria rendendola irrespirabile. Corpi martoriati
erano sparpagliati tutt’intorno, alcuni bruciavano simili a raccapriccianti
torce umane. Seppur indurito da anni di guerra brutale, fu turbato dalla gran
carneficina e si accorse di avere gli occhi umidi, non si sarebbe mai abituato a
quegli orrori. Nella valle intanto rimbombavano le grida di vittoria dei suoi
soldati: un’intera brigata corazzata nemica era stata annientata.
- Maledetto ventaccio- disse, asciugandoseli in fretta con la manica
della camicia prima che arrivassero i suoi - solleva la sabbia e mi arrossa gli occhi…-
Ibrahim era steso sulla cima di una bassa collina e osservava il piccolo kibbutz
che era sorto dove un tempo c’era la sua casa. Il mucchio di sassi era ancora
là, una fitta al cuore accompagnò il ricordo di suo padre, morto come un cane nel campo profughi di Shabra. La luce morbida e tremula della luna
calante rischiarava i campi e si rifletteva sulle lamiere delle casupole con un
pallido alone d’argento. Una piega di soddisfazione si stagliò sul volto:
tutto era calmo e tranquillo, avrebbe avuto luce a sufficienza per osservare e
uccidere. Scrutò commosso la sua valle. Ampi e ordinati aranceti, uliveti,
campi di frumento e orti ben curati facevano corona attorno al piccolo villaggio
tagliato a metà da un'unica strada, bianca e diritta. Recinti per il bestiame,
capanne da deposito e pozzi artesiani erano sparsi qua e là fra un appezzamento
e l’altro. ”Anche l’acqua,- pensò sbalordito - sono riusciti a trovare quei diavoli !”
Nonostante l’odio che provava per quei coloni, non poté fare a meno di
ammirarne la tenace operosità.
Il suo era un retaggio ancestrale: il ricordo di feroci persecuzioni era inciso
in profondità nel cuore di ogni druso. Tutta la loro storia era caratterizzata
da un’invincibile perseveranza di libertà: contro gli elementi ostili della
natura e contro gli uomini, prima i romani, poi i bizantini, quindi i crociati,
i turchi, gli inglesi e ora gli ebrei. Con questa lunga catena di tragedie, ogni
druso cresceva senza paura della morte e la loro vita rimbalzava sulle continue
sofferenze indurendosi sempre più.
In un campo militare situato nella valle della Bekaa, in Siria, gli istruttori
russi avevano fatto leva proprio su questi sentimenti per allevarlo nell’odio
contro gli usurpatori sionisti e per addestrarlo a combattere, a uccidere, a
morire.
Un vecchio muezzin gli aveva poi spiegato che pure gli Ebrei, discendenti da
Abramo come gli Arabi, e i Cristiani erano popoli del Libro,
ma i primi si ostinavano a non riconoscere la Verità dell’Unico annunciata a
Maometto, i secondi invece erano credenti fuorviati poiché pensavano che Gesù,
un profeta come altri, fosse il Messia, il Figlio di Dio. Blasfemi. Empi. La
collera l’invase: nessuna pietà per gli infedeli. Nessun rimorso per la loro
morte.
Il sole brillò all’improvviso sollevandosi maestoso sulle creste del Golan.
Le ultime ombre fuggirono e si rintanarono nei meandri più segreti del
Giordano. Ibrahim si tolse i sandali, srotolò la stuoia e si prostrò verso la
Mecca.
Un
galletto solitario cominciò a cantare segnalando l’inizio di quello che
sembrava un giorno simile a tanti altri. Salomon si alzò dal giaciglio che
divideva ormai da due anni con Anna, la sua giovane sposa, un' ashkenazita di
origine olandese scampata allo sterminio nazista. L’aveva conosciuta davanti
al Muro del Pianto, durante la festività di Yom
Kippur, mentre pregavano per i morti dell’Olocausto. Salomom si rivide
quando, colpito dalla bellezza
della ragazza, si era perso nei suoi occhi e gli parve ancora di provare l’imbarazzata vampata di rossore che lo
tradì nel momento in cui ella, voltandosi improvvisamente, l’aveva colto di
sorpresa con uno sguardo pulito come l’aurora.
La sua pelle era diafana e vellutata, trasparente come la porcellana,
punteggiata da mille efelidi delicate come minuscoli petali di rosa; i capelli,
lisci e sciolti, le ricadevano spesso sugli occhi come onde seriche che ella
ricacciava indietro con un colpetto del capo. E come gli piaceva quel suo
incedere leggero come se stesse volando !
Per la prima volta si sentì mancare provando quel piacevole formicolio di
vertigine che serra lo stomaco e affanna il respiro. Sorrise divertito al
ricordo del proprio impaccio mentre, pedinandola di nascosto, cercava
disperatamente le parole, e non le trovava, per invitarla a bere una limonata
fresca in un chiosco della città vecchia per lenire la calura opprimente di
quella giornata.
Le rimboccò la coperta sulle spalle: faceva fresco di notte lassù. Era entrata
nella sua vita per caso, ma gli aveva rubato l’anima. Si era innamorato di
Anna subito, un vero colpo di fulmine, non pensava che potesse succedere proprio
a lui, uomo già maturo e dalla scorza dura. Ma era successo ed era felice.
Guardandola dormire, piccola ombra indifesa, provava una tenerezza sconosciuta e
gli batteva forte il cuore come un ragazzino.
Sull' avambraccio sinistro spiccava indelebile il numero dell’infamia
marcatole a fuoco nel lager.
Dopo aver fatto l’amore, ella gli si accoccolava tra le braccia e Salomon ne
sentiva il cuore che vibrava di infinita tristezza: voleva dargli un figlio, ma
non poteva. Non più dopo quello che le avevano fatto, ancora adolescente, a
Treblinka. Sapeva che il demone era rannicchiato ancora dentro di lei pronto a
ghermirla nell’ombra degli incubi più terrificanti. Non passava notte che il
sonno di Anna non fosse percorso dagli spettri del passato, egli allora
l’avvolgeva con la sua forza finché il respiro non le tornava regolare e i
tremori passavano.
Senza fare rumore, Salomon si vestì, si mise a tracolla l’Uzi dopo averne
infilato un caricatore ed uscì dalla baracca che da un anno era diventata la
loro casa quando gli avevano affidato il compito di dirigere il kibbutz 22,
sulle colline del Golan, e di vigilare su quella infida terra di frontiera con
la Siria e la Giordania.
Era l’alba. Si avvicinò al pozzo, prese un secchio d’acqua e si rinfrescò
il viso.
Ibrahim,
acquattato tra le rocce, inquadrò l’uomo nel cannocchiale telescopico del suo
Enfield. Ne notò il viso fiero, segnato dal sole e da mille battaglie, gli
occhi vigili che giravano circospetti tutt’intorno. Lo sguardo di un capo.
Allah era stato benevolo: gli aveva consegnato una buona preda.
L’attenzione
di Salomon venne attirata da un repentino movimento sulla cresta della collina
sovrastante. Prontamente imbracciò il mitra e ne tolse la sicura. Aguzzando la
vista e schermandosi gli occhi dai raggi ancor bassi del sole, ne indagò gli
anfratti alla ricerca di eventuali segnali di pericolo.
No, tutto era tranquillo. Probabilmente una volpe o una capra selvatica.
Quando
l’uomo alzò la testa inquadrando la sua postazione, Ibrahim si ritrasse
velocemente dietro la roccia. L’adrenalina che ora gli scorreva dentro aveva
raddoppiato la sua reattività. - Devo stare più attento, -
si rimproverò
- quello è uno che ci sa fa fare. Per poco mi scopriva !-
Si sforzò di tenere gli occhi bene aperti e sbadigliò a piena bocca per
restare sveglio e dominare la tensione.
Non poteva, non doveva sbagliare. Con calma alzò l’Enfield e lo appoggiò al
sostegno di sassi che aveva precedentemente preparato. Una sensazione di gelo
mista a fredda determinazione gli scese lungo la spina dorsale. Aveva
partecipato ad altre incursioni contro gli insediamenti ebrei prima di allora,
ma mai da solo e mai aveva ucciso un uomo. Si sentì scuotere da una strana
esaltazione di onnipotenza: aveva il controllo di una vita umana. Era così che
doveva sentirsi Dio? Scacciò subito quel pensiero sacrilego. Assestò la presa
delle mani sul fucile, fece un respiro profondo e poi espirò tutta l’aria dai
polmoni per trovare la giusta stabilità del corpo, valutò la forza del vento,
la croce di collimazione del mirino si fissò sul petto dell’uomo e restò
ferma. Tirò il grilletto con dolcezza. L’Enfield crepitò una sola volta,
risuonando forte nella valle. Alcuni uccelli s’alzarono in volo spaventati.
Latrati di cani si rincorsero nel kibbutz L’ebreo
cadde in avanti, piegandosi su se stesso, la tazza dell’acqua gli fuggì di
mano e rotolò a terra con stridore metallico.
Il
proiettile colpì Salomon appena sotto la gola e gli esplose nel corpo. La
sorpresa fu più forte del dolore, si accorse di cadere e di contorcersi in
movimenti incontrollati mentre il rosso vivo dell’alba si tramutava in una
luce accecante. Provò a rimettersi in piedi, ma le gambe e le braccia si
ostinavano a non obbedirgli e quando aprì la bocca per gridare non riuscì a
trovare aria nei polmoni. Gli parve che il tempo rallentasse e si sentì
risucchiare dentro una larga e dolce spirale di quiete che lo sollevava dal
suolo. In quel silenzio ovattato ed immateriale, sentì distintamente la voce di
sua madre che lo chiamava. Lo aspettava. Capì che quella era la Morte e pensò
che, in fondo, non era poi così brutta.
In un vorticoso flash rivide tutta la sua vita, l’ultima istantanea fu per
Anna e la fitta si fece dolorosamente acuta.
Era stato giocato dal destino proprio sul più bello, senza scampo.
Il
rinculo gli fece perdere, per un attimo, l’immagine del bersaglio. Quando la
ritrovò, Ibrahim vide che aveva fatto
centro. Un tiro perfetto. Un nemico in meno. Suo padre era stato vendicato.
- Allah akbar- mormorò, e si dileguò velocemente.
Quando
il rabbino terminò di salmodiare
in yiddish e l’eco finì di accompagnare le sue cantilene, tra i kibbutzin scese il silenzio. Alcuni uomini presero la salma di
Salomon avvolta in un bianco lenzuolo e la deposero nella buca scavata di
fresco. Avevano scelto un pendio soleggiato situato ai margini dell’uliveto,
in alto.
Anna si accostò. - Posategli questo
accanto- disse sottovoce porgendo loro uno strano cappello a cupola, scuro e
sformato. Il fregio dorato era sfilacciato ed opaco, di lato spiccava una penna
nera, corta e smozzicata. - Era il
cappello che portava quando combatteva
i nazisti, in Italia. - spiegò leggendo la loro curiosità -
Lo chiamavano Falco... Ogni tanto lo toglieva dalla cassapanca, lo
lisciava e lo spolverava...lo guardava e intanto mi parlava di sua madre finita
nel vento sporco di Auschwitz, del
padre di cui non ricordava le carezze, del suo comandante e dei suoi amici
caduti in battaglia... mi descriveva la sua terra, la bellezza delle sue città,
la dolcezza delle sue colline, la maestosità delle sue montagne… -
Non riuscì a continuare, la costernazione le serrò la gola e forti
singhiozzi le soffocarono le parole. Grosse lacrime violarono ancora quegli
occhi ormai esausti e le rigarono il viso sciupato. L’ultima lacrima cadde sul
drappo funebre imprimendovi un leggero alone argenteo. Un raggio di sole
l’accarezzò sprigionandone una folgore brevissima, quasi una scheggia di
cristallo. Prima che l’incantesimo svanisse, Salomon la raccolse e la portò
via con sé.
Shalom
Salomon
Alpino Partigiano Ebreo.
Shalom Salomon.
Amico. Amico per sempre.
EPILOGO
Oggi il kibbutz 22 è un importante centro agrumicolo, una piccola città toccata dal
progresso e dal benessere. Ha la sua sinagoga, le scuole, un ospedale, dei campi
da gioco, un teatro, una piscina. Ha anche un nome proprio.
Sono
passati quarant’anni da allora, eppure quel posto lassù, sotto la collina che
domina la valle, dai suoi abitanti viene ancor oggi chiamato con rispetto
Habiknest: “il nido del Falco”.
Giorgio Visentin
PAROLE INTORNO AL FUOCO