GIORGIO VISENTIN


Con il racconto “VALCHIUSELLA 28 APRILE 1945”, Giorgio Visentin (Gr. Bibano-Godega) si è classificato secondo alla 4a Edizione del premio nazionale per un racconto “PAROLE INTORNO AL FUOCO”. Oltre al linguaggio sicuro, esperto ed essenziale con cui viene sviluppata la vicenda, il cui protagonista è perfettamente inserito nella ‘cultura alpina’, la giuria ha apprezzato l’intenzione dell’autore di contribuire a quel processo di riconciliazione nazionale che, per il bene del Paese, avrebbe dovuto concludersi già da tempo.
Una delle caratteristiche della manifestazione è che metà dell’importo del premio viene devoluto in beneficenza ad Enti od Associazioni indicati dagli stessi vincitori.

VALCHIUSELLA 28 APRILE 1945

Questa è la storia di Sante, classe 1916, caporale nell’esercito regio - divisione “Pusteria” - prima nell’esercito della R. S. I. - divisione “Monterosa” - dopo.  La storia di un Italiano.  Un Alpino.
Nessun epitaffio glorioso sulla sua tomba: il suo corpo finì in una fossa comune, il suo nome non è ricordato da nessuna lapide e non è scritto su nessuna croce.
Colpito da anatema “ab aeterno” come fascista, fu bollato d’infamia e oggetto di un odio senza perdono, rimosso dalle memorie e disperso come cenere al vento.
La colpa? L’aver scelto, nel momento più buio della Patria quando le strade degli Italiani si divaricarono drammaticamente, la parte sbagliata.
Da allora è passato un mare di storia che ha cambiato la faccia al pianeta abbattendo muri e cortine, sgretolando stati e imperi, sconfessando verità e ideologie che sembravano eterne come i Vangeli.
Ora, a distanza di oltre mezzo secolo, senza voler modificare il giudizio che la Storia ha dato di quel periodo e dei suoi protagonisti, sono molti ormai a ritenere che sia maturato il momento della riconciliazione nazionale e di restituire a Sante, e a tanti come lui, ciò che gli spetta: la dignità di Uomo, l'onore di Soldato, il rispetto di Caduto.
Questo racconto vuole quindi essere un doveroso omaggio a quanti, in quell’infausto periodo, caddero servendo il Tricolore, pur su fronti avversari, per una Causa e un Ideale: gli uni per la Libertà, gli altri per l’Onore.
Non era solo quell’ariaccia gelida che scendeva dalla stretta della Dora a sferzare il volto e ad inumidire gli occhi del gruppetto di uomini, quel mattino di fine aprile, chiamati a rapporto davanti alla palazzina comando della caserma “Cesare Battisti” di Ivrea.
Il comandante li fissò stravolto.  La barba incolta e le borse sotto gli occhi infossati tradivano notti insonni e inquiete. Le sue parole, stentate e faticose, cadevano sulle loro residue speranze come macigni.
- Ufficiali e sottufficiali... Mussolini ha abbandonato Milano ed è fuggito chissà dove... Kesserling si è arreso... molte città sono in rivolta e i nostri sono attaccati da tutte le parti... - una pausa che sembrò infinita e poi la rasoiata -...ormai è finita! -
- Che ne sarà di noi, dei nostri soldati delle nostre famiglie? - chiese con apprensione il capitano Venturi, un mito per i suoi che sul bavero ostentava con orgoglio il nastrino della “Croce di ghiaccio” per aver salvato dai Russi la bandiera del reggimento, là a Nikolajewka, pur lasciandovi un braccio nell’ultimo e disperato assalto.
- Ritorno ora dal vescovado, - continuò il comandante - mi è stato consegnato l’ultimatum del C.L.N.: dobbiamo deporre le armi e consegnarci senza condizioni ai partigiani. Il Vescovo si farà garante della nostra incolumità e... -
- Balle! - lo interruppe ancora Venturi mentre la manica vuota della giubba sventolava inerme ad ogni folata irriverente del vento - Appena ci prendono i “rossi” ci sgozzano come maiali, lo hanno già fatto altrove.  Se dovrò morire almeno lo farò con onore, con le armi in pugno e non con una pallottola alla schiena come un vigliacco. -
-Tutti lo guardarono con rispetto.  Molti annuirono.
- Ormai siamo braccati, - concluse con un fil di voce il comandante - la vendetta, come una iena famelica, ha già fiutato il nostro sangue e non ci darà tregua finché non si sarà saziata.  Da questo momento siete liberi di scegliere la vostra strada.  E ora andate, che Dio protegga l’Italia. -
Sante si recò di corsa nella camerata dove l’aspettavano ansiosi i soldati della sua squadra. Erano rimasti in pochi, una dozzina, gli altri se l’erano già svignata quando ormai si profilava ineluttabile la disfatta.
Spiegò loro la situazione.  Alcuni si tolsero la divisa e se ne andarono in silenzio, a capo chino, masticando un saluto imbarazzato.
- Che faremo ora, sergente? - lo interrogarono quelli rimasti, i più giovani e inesperti, aggrappandosi a lui come pulcini alla chioccia mentre in cielo roteava la poiana pronta a ghermirli.  Sante li guardò e gli si strinse il cuore.  Uno di essi, sui 16 -17 anni, cominciò a singhiozzare sommessamente. Gli posò una mano sulla spalla con un gesto forte e rassicurante.  No, non poteva abbandonarli così proprio adesso!
- Luoghi per nasconderci qui attorno ce ne sono tanti - li rincuorò - se i partigiani scendono dalle montagne ebbene noi le saliamo e quando arriveranno gli Americani ci consegneremo a loro.
Li raggruppò, erano sette.
- Presto, - ordinò - mettete nello zaino solo il necessario, prendete il mitra e andiamo.  Io starò davanti.  Mi raccomando, non accettate provocazioni da civili, se vi insultano tacete, state sempre uniti. Forza ragazzi - li scosse - su la penna, siamo pur sempre alpini no?! -
In quei volti da adolescenti, tirati e imbruttiti dalla tensione, comparve un barlume di speranza.
Mentre uscivano dalla porta carraia, al plotoncino si accodò anche un miliziano delle Camicie Nere.  In fila indiana imboccarono la strada verso il Canavese.
La nebbia saliva lenta dal fiume e stagnava come un velo opaco sopra la città trasformando in ombre evanescenti i rari passanti che si muovevano furtivi nelle viuzze acciottolate. Ivrea, in quei giorni, era una città muta e spettrale, vi si respirava l’aria spasmodica dell’imminente liberazione e della fine di quella sporca guerra dall’epilogo fratricida.
E loro fuggivano come ladri.
Nelle occhiate sbieche delle donne che incontrarono lessero solo odio.
Un vecchio intabarrato, al loro passaggio, girò la testa dall’altra parte scatarrando per terra: passava Caino, maledetto da Dio e dagli uomini.
Dopo alcune ore di marcia senza intoppi, da un dosso scorsero il piccolo abitato di Parella.
Il tozzo campanile esplose in un festoso scampanio cogliendoli di sorpresa. Sante ne intuì il significato: in paese erano giunti i partigiani sbarrando loro quella via di fuga.
Consultò la mappa e deviò sulla destra inoltrandosi in una valletta laterale intagliata da un torrente salterino, costeggiato da una mulattiera che si inerpicava tortuosa su per una faggeta: Valchiusella.
La risalirono in completo silenzio.  Il passo era scandito dall’ansimare faticoso dei nove.
Sante precedeva gli altri di qualche metro, teso come la corda d’un violino, con i sensi allertati alla ricerca del minimo indizio di pericolo. D’un tratto gli parve d’udire, confuso nel fragore dell’acqua, il frammento di una risata.
La reazione fu fulminea.  Avvicinò l’indice alle labbra: silenzio! Roteò la mano indicando i lati della pista: nascondersi! Portò il pollice al petto: sparare al mio segnale! Quindi si tuffò anch’egli nel fitto dei cespugli.
Appena in tempo. Dal tornantino superiore ecco comparire uno, due, tre... quattro uomini. Avevano la barba lunga, la divisa scompagnata e un vistoso fazzoletto rosso al collo. Uno di essi zufolava tranquillo, l’ultimo si stava arrotolando una sigaretta.
L’euforia ubriacante della vittoria doveva averli resi così baldanzosi e spavaldi tanto da portare le armi imprudentemente a tracolla. Che fatale leggerezza!
Quando il loro capofila, insospettito dal silenzio innaturale del bosco, fiutò l’imboscata tentò disperatamente di imbracciare l’arma e di avvertirei suoi, ma fu tutto inutile.
- Fuoco fuoco! - gridò Sante lanciando una bomba a mano. Urla disumane e raffiche rabbiose squassarono l’aria.  L’impari scontro non durò che una decina di secondi poi sulla valle aleggiò un tetro silenzio di morte.
I repubblichini uscirono con circospezione dai nascondigli e controllarono i corpi crivellati e scomposti dei partigiani, scuotendoli e rivoltandoli con brusche pedate.  Il sangue scorreva copioso in rivoletti formando nelle buche del terreno larghe pozze vischiose.
- Questo bastardo è ancora vivo! - gridò la Camicia Nera. - E’ stato ferito solo di striscio alle ginocchia - e gli piantò il mitra alla nuca per finirlo.
- Fermo disgraziato, fermo! - urlò Sante. - Noi siamo soldati non assassini.  Provaci e t’ammazzo come un cane, capito?! -
Il miliziano lo affrontò con occhi rancorosi ma smoccolando un paio di bestemmie abbassò l’arma.
- Forza, - rivolgendosi quindi agli altri - rimettetelo in piedi, lo porteremo con noi, all’occasione può servirci come lasciapassare.  Dài veloci, gli spari si saranno sentiti anche a fondo valle e fra poco saranno qui... andiamo andiamo ostia! - L’adrenalina accumulata nello scontro moltiplicò le loro forze e la marcia riprese spedita. Il sole, intanto, era sparito dietro i crinali incappucciati delle vette, orlando il cielo color indaco d’una tenue striscia vermiglia. Ai margini d’un ampio pascolo scorsero una malga vuota e vi si fermarono per tirare il fiato.
- Ehi “boce” venite qua.- fece Sante - Al di là di quella forcella...- tutti, schermandosi gli occhi con una mano per ripararsi dai riverberi taglienti dei ghiacciai, alzarono lo sguardo verso una netta spaccatura tra due picchi di rosso granito - oltre quei monti c’è la salvezza, però dobbiamo dividerci per non farci scoprire.  Io me ne andrò per ultimo, vigilerò sulla valle proteggendovi le spalle.  Riposatevi qualche minuto e...- la sua voce parve incrinarsi per un attimo - ... addio! -
Un abbraccio commosso, una manata sulle spalle, qualche parola biascicata di ringraziamento e a brevi intervalli se ne andarono.
Sante, rimasto solo col prigioniero, con un calcio sfondò la porta ed entrò nell’unica stanza sghemba della malga. L’aria stantia sapeva di fumo e latte rancido.  Fece sedere il partigiano su una panca e gli si mise di fronte.
Lo osservò: era un giovane precocemente invecchiato, con il viso emaciato e sporco di sangue raggrumato fin sul collo, curvo e rassegnato.
- Come ti chiami ragazzo? - gli fece Sante.
- Il mio nome di battaglia è "Piave”, - rispose quegli alzando con orgoglio il capo - perché vengo da là... Sono di Sant’Urbano, un borgo vicino a... -
Sante, colto di sorpresa, si sentì di colpo inghiottire da un vortice impetuoso di ricordi struggenti, era come se un cancello si fosse improvvisamente aperto sulla sua mente liberando immagini di un’esistenza lontana e irreale, ma che ora andava materializzandosi prepotentemente.
25 maggio 1937, forse il giorno più bello della sua vita.
Era un pezzo che faceva il filo alla Caterina cercando di farsi notare dalla giovane alla messa o passando davanti alla sua casa, dopo il faticoso lavoro al “majo”, fischiettando con finta indifferenza sulla sua vecchia bici e non importa se allungava il tragitto d’un bel pezzo. Ma in risposta non un saluto o un cenno di attenzione, neanche uno sguardo obliquo e furtivo, niente
E ogni volta il cuore gli palpitava di cocente delusione.
E proprio quel giorno, alla fiera di Sant’Urbano, la scorse davanti ad una bancarella intenta a provare uno scampoletto azzurro. Era sola poiché la madre, che non la mollava mai, era tutta presa, un po’ più in là, a contrattare l’acquisto di alcune “dindie”. Un’occasione unica ma... e il coraggio? E poi come avrebbe reagito Caterina? Sai che figura se si fosse ingarbugliato con le parole e lei gli avesse riso in faccia!  Stava ormai per desistere quand’ecco la folgorazione improvvisa, quasi un segno del cielo.  Si ricordò che a proposito della fiera di Sant’Urbano circolava il detto antico “Chi vuol la morosa d’istà, ghe regale i fighi al primo marcà”, ossia un modo rusticano per dichiararsi alla ragazza prescelta senza tanti fronzoli.
Corse allora al primo banco e si fece dare la più bella corona di fichi secchi esposta.
In preda all’agitazione e accompagnato dal sorriso divertito della casorina che aveva intuito tutto, ritornò sui suoi passi e, vincendo una vocina interna che gli diceva: “Torna indrio, mona!”, prima che la Caterina si riprendesse dalla sorpresa le confessò il suo amore infilandole in mano la corona di fichi.
Le gote del ragazzo si imporporarono violentemente.
“Oddio”, pensò Sante, restando lì impalato come un baccalà, “adesso mi molla una sberla e mi sbatte i fichi in testa”.
Cati, invece, li tenne ed egli si sentì in paradiso. La giovane andò dalla madre e le bisbigliò qualcosa all’orecchio indicandolo con il mento. Impressa gli rimase l’immagine delle due donne mentre lo guardavano sorridendo, complici.  Più avanti, ella gli confesserà con fare malizioso che non le erano affatto passate inosservate le sue manfrine e aspettava solo che le cadesse ai piedi come un “pero”.
Anzi, quel giorno alla fiera era stata lei a notarlo per prima e si era staccata dalla madre proprio per spingerlo a fare il primo passo.
“Ah Cati, Cati, Cati...” gemette Sante con un groppo in gola. ricacciando a fatica le lacrime.
Si sposarono il 29 giugno del ‘40. Da alcuni giorni l’Italia era entrata in guerra, ma le nubi fosche della tragedia erano ancora lontane e nel Paese si respirava un’aria surreale, quasi si andasse alla solita parata di regime. Sante fu destinato al reggimento  Cadore della Pusteria, ma venne temporaneamente esentato per il matrimonio.
- Oro oro! - gli ripeteva il suocero - La guerra finirà in due settimane, lo ha detto il Duce.  Che fortuna che ti gà, altro che mi che gò passà l’inferno sul Carso e sul Grappa -.
Ma la guerra continuò e così Sante dovette aggregarsi al reparto che partiva per il fronte greco. Cati lo accompagnò alla stazione e con le lacrime agli occhi, portandosi delicatamente la mano al ventre, gli sussurrò: - Torna a casa, ti aspettiamo.-
La gioia della sorpresa fu soverchiata da un lacerante senso d’angoscia, quasi premonitore. In Albania la prevista scampagnata si trasformò ben presto in disfatta.
Dopo un sanguinoso assalto a quota 978 sul Tomori, Sante si caricò sulle spalle il suo tenente ferito e lo portò in salvo, nonostante il tiro ravvicinato dei greci, guadagnandosi la medaglia di bronzo e i galloni di caporale.
Nell’autunno del ‘41 era in Montenegro quando gli giunse una lettera da casa contenente una foto: Cati e il bambino, battezzato come da tradizione con il nome del nonno paterno, Antonio.
Il piccolo, bello come il sole, tendeva le manine come per toccare quel suo papà così lontano e sconosciuto.  Sul retro della foto una breve scritta: “Torna a casa, ti aspettiamo”.  Sante per la prima volta pianse.
L’8 settembre lo colse in pieno territorio nemico.
Con un pugno di sbandati, muovendosi col buio e sfamandosi di frutti selvatici, riuscì a raggiungere la costa sfuggendo miracolosamente alla caccia serrata di ustascia, cetnici e titini che se li prendevano...
Un pescatore croato, dietro la consegna di tutto ciò che aveva compresa la sua fede nuziale, lo riportò in Italia sbarcandolo nei pressi di Pescara.
Sante risalì a piedi la penisola facendo tappa presso le fattorie che incontrava, dando una mano nelle stalle e nei campi in cambio di un tozzo di pane e un fienile dove dormire.
Era la settimana dopo Pasqua del ‘44 quando, dal terrapieno della ferrovia, scorse come un miraggio la sua città. Con lo sguardo velato dalla commozione seguì il corso argentato del fiume e spaziò sopra i campanili, le cupole ramate duomo, la... un tuffo al cuore: dov’era la torre medievale? Come mai non si vedevano i contorni merlati dell’antico palazzo comunale? Con la mente in tumulto, oltrepassò correndo le mura per la porta “del Leon”, ne rasentò i bastioni alberati, superò la roggia del vecchio mulino, ecco la fontana, ancora un isolato, l’ultima svolta... la sua casa non c’era più. Mezza città era un cumulo di rovine!
I polmoni gli esplosero in un urlo disperato e si accasciò suolo, sgretolato anch’egli come quei poveri muri.  Una mano amica lo risollevò. Negli occhi pietosi e trasparenti di don Giuseppe, Sante lesse la tragica verità.
Era ancora annichilito dal dolore quando un rombo immane e sinistro s’impadronì del cielo e il sole fu oscurato da un’immensa formazione aerea diretta verso un’altra sventurata città da annientare.
Alzò il pugno con un gesto di sfida e maledisse quel nemico invincibile che non mostrava alcuna pietà per gli innocenti. D’impulso, obbedendo più al cuore che alla ragione, si arruolò nell’esercito della R.S.I.
Per i suoi trascorsi militari venne assegnato alla divisione alpina Monterosa con il grado di caporalmaggiore. Combatté gli inglesi in Garfagnana dove si distinse per coraggio ed esperienza meritandosi la venerazione dei giovani commilitoni e i gradi di sergente.  Nell’inverno 1944-45 la Monterosa fu dislocata in Piemonte con compiti di controguerriglia. Sante si trovò così a combattere quella guerra che non comprendeva, italiani contro italiani, fatta di agguati e di rappresaglie. Lui, soldato tutto d’un pezzo, capiva solo che in quelle reciproche atrocità la ragione umana aveva lasciato posto all’incontrollabile ferocia dell’animale ferito e impaurito che vuole sopravvivere ad ogni costo.
E adesso per loro, gli sconfitti, era giunta la resa dei conti, l’ora dei lupi.
Sante si scosse dai ricordi e fissò nuovamente il suo prigioniero. Magari senza saperlo, s’erano pure incrociati alla fiera di Sant’Urbano o forse avevano bevuto un’ombra nella stessa osteria e ora erano là, in balia di un destino cinico e beffardo, sradicati dalla loro terra, separati da un odio mortale. Come era potuto accadere tutto ciò? Quale pazzia aveva ottenebrato la coscienza di un intero popolo?
-Vai- si trovò a dire - vai, torna a casa bocia, torna dai tuoi. Sei libero.- “Piave” che s’aspettava ormai il peggio, rinvenne dal suo rassegnato torpore. - Vattene ragazzo, - gli ripeté - la guerra è finita! -
Sulla porta il partigiano ebbe un’esitazione, si voltò quasi volesse parlare, ma tacque.
Parlarono invece i suoi occhi quando, per un attimo, incontrarono quelli del sergente.  Si limitò ad un lieve cenno della mano poi si girò e uscì.
Un’improvvisa scarica di mitra lacerò il silenzio della valle. La porta della malga scricchiolò per la violenza della pedata. Si affacciò la Camicia Nera, lo sguardo duro e grifagno, la canna della sua arma fumava ancora. Trafisse Sante con occhi di ghiaccio.
- Eravamo sei amici - disse con un sibilo, come parlasse a se stesso - e sono rimasto il solo. I partigiani li hanno ammazzati tutti alla stessa maniera, di notte e alla schiena... Forse è stato proprio quello di là. Di fronte ai loro corpi straziati ho giurato che prima di crepare anch’io ne avrei steso almeno uno per vendicarli. -
Girò la testa verso il cadavere di “Piave” e gli sputò sopra con uno schiocco osceno.  Poi se ne andò inghiottito dalla notte.
Sante si riprese la testa fra le mani. Dio, com’era stanco e svuotato.
Non aveva ancora trent’anni e se ne sentiva trecento. Lo sfinimento lo intorpidiva e il peso degli ultimi avvenimenti lo sprofondava in una voragine senza appigli come un naufrago in un’odissea infinita.  Ma all’orizzonte non c'era nessuna Itaca per Sante, nessuna!
Dal profondo del suo cuore emersero lentamente i rimpianti per i sogni perduti e per gli affetti negati.  Dalla tasca sfilò la foto di Cati e di Tonino, quel bimbo che gli tendeva le braccia e lui non aveva mai cullato, mai baciato, mai carezzato.
- Torna a casa - gli dicevano - ti aspettiamo. -
I muscoli facciali gli si rilassarono, levigando le profonde rughe della fronte e si sentì invadere da una profonda quiete.
- Torna a casa,- lo chiamavano - ti aspettiamo.-
La sua mano cercò la fondina e ne estrasse la Beretta.
La curva della sua bocca si addolcì nel sorriso mentre con calma portava la pistola alla tempia: era finalmente giunto, anche per lui, il momento di tornare a casa. Sì, a casa!

Giorgio Visentin

PAROLE INTORNO AL FUOCO