Storie dei nostri veci |
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VITTORIO BOZZINI |

Giugno 1962
VORREI baciare un alpino ed un mulo !
(Ricordi della Campagna di Russia)
Il tempo, che ci separa dai fatti
lontani della vita, ha un’importanza relativa, marginale: certi avvenimenti si stampano nella mente con tale nitida
precisione, che la freschezza del ricordo non subisce offuscamento, ed è come se il tempo si fosse fermato in uno con
essi.
19 gennaio 1943: una giornata che ho vissuto soltanto ieri, a dispetto del tempo che segna quasi vent’anni passati.
Allora, come in questo momento che scrivo, alle quattro del pomeriggio, l’«Edolo» si attestava sulla base di partenza
per l’attacco. Ci stavano dinanzi, nel gran mare di neve, le colline di Skarorib, fosche di minaccia, pronte a
dischiudere crateri di fuoco.
Era un caposaldo russo, acquattato sornione nella bianca ovattata:
il primo che venisse a interporsi tra noi e la Patria sul cammino insanguinato della ritirata. Bisognava spazzarlo via,
annientarlo: e sentivamo che saremmo passati sopra quel baluardo di ghiaccio, perchè l’anima nostra era già oltre, sulla
strada di casa. Un attacco tedesco, sferrato da pochi sbandati, era fallito; ora i russi, annidati sulla cresta delle
alture, aspettavano noi.
L’«Edolo» distende le sue Compagnie. La 52 agisce sulla sinistra; il mio plotone — terzo fucilieri — all’estrema
sinistra di tutto lo schieramento attaccante. Al di là di noi, il vuoto, il mistero, il cielo ingrugnito, sopra il
bianco senza fine. Siamo pronti: tutto è silenzio; c’è nell’aria diaccia l’attesa fissa, spasmodica, che sempre precede
il terrificante rito della battaglia.
Il primo tratto è in contropendenza. Ci tuffiamo giù per la china a corpo perduto, mentre si sveglia il sinistro
miagolare delle pallottole: trafiggono la neve e sollevano una ridda di fiocchi bianchi intorno a noi: fiori di morte.
Poi incominciamo a salire, lenti, disseminati fra pieghe di neve, Caparbiamente protesi verso la cima. Dall’alto
scendono lingue di fuoco, sempre più vicine, sempre più vi- vide ed urlanti. Mi mordono quasi la carne.
L’anima si stringe attorno al fucile impatinato di ghiaccio. Il cuore è in gola; le tempie battono forte; la faccia
brucia di calore benché sia sempre affondata nella neve, su cui guizza solo il filo dello sguardo al momento di premere
il grilletto. Un altro balzo, un altro tuffo: sono vivo; mi hanno schivato i fiori di morte che ho visto corrermi ai
piedi zigzaganti in cerca di me, per trafiggermi.
Infilo un caricatore nuovo e sparo in su, verso la cresta, cui le nostre «Breda» avventano fiondate rabbiose,
invelenite. Ma i russi sono coperti e noi spariamo alla cieca invece, per loro, noi siamo nitidi bersagli neri
nell’immenso biancore.
Avanti ancora, come serpi, strisciando la pancia sul ghiaccio, con le tasche, le giberne, le maniche e la bocca piene di
neve: e tanto fuoco ci corre sopra la schiena! Alla mia sinistra Muttinelli cade in modo strano, innaturale: non è il
tuffo deciso di uno che, vivo, si proietti nella provvida neve cercando riparo: è il pesante cadere di chi, folgorato,
crolla inerte a metà dello slancio: infatti non spara più, si raggomitola stringendosi un fianco.
Sulla destra è sparito Moioli: centrato da una cannonata, è stato polverizzato col suo mitragliatore con cui aveva fatto
prodigi da leggenda sotto i reticolati del Don. Pare impossibile che, in un attimo solo possa annientarsi un coraggio
così smisurato. Raggiungo Muttinelli, strisciando. « Madùna me!», è l’ultima invocazione che sento: poi si distende
diritto, immobile: per lui è finita con una palla al fianco.
Anche Beatrici è stato colpito: lo vedo far piroette in mezzo alla neve come fosse impazzito, tanto è tremendo il suo
strazio. Ma bisogna arrivare alla meta, bisogna stringere i denti e procedere verso la cima donde ci rotola addosso
l’inferno: cinque carri armati! Mai ho provato un terrore così sconvolgente: il mio volto deve essere un’orrida maschera
segnata di paura agghiacciante.
Tra poco saremo tutti schiacciati da quei mostri di ferro che si ridono dei nostri fucili e scendono giù dalla china con
baldanzoso fragore. Ora siamo formiche che lottano contro giganti invulnerabili, i quali assorbono le schioppettate come
carezze. Signore. guarda laggiù!
La mano mi corre alla schiena, alle bombe che saranno l’ultima vana difesa contro la valanga di ferro. Ma quando già
penso, inorridendo, di essere fatto poltiglia sanguinolenta, avviene il miracolo. L’unico carro armato tedesco, che
abbiamo dietro di noi, si arresta in mezzo alla neve e scaglia cannonate secche, precise, contro i carri russi che
scendono all’impazzata: il primo s’incendia, due sono immobilizzati, gli altri si danno alla fuga.
Veramente la morte mi ha sfiorato coi suoi gelidi artigli, ed ora mi sento leggero, come se la mia pelle fosse divenuta
imperforabile. Ma, al nuovo balzo, una scarica elettrica m’investe la gamba sinistra e si diffonde dolorosa lungo le
ossa: sono stato beccato, non posso più camminare.
Mi schiaccio fin sotto la neve e resto ad ascoltare il furore sempre più eccelso della battaglia che si allontana
davanti a me, finché l’eco dei «Savoia» d’assalto si perde lontano.
Mi rialzo in mezzo ad un silenzio di tomba. Sono calate le ombre, ma le macchie nere dei morti, su tutto quel bianco,
sono più cupe della notte. Chiamo soccorso. Mi risponde un grido lontano: è l’alpino Maccarana, del secondo plotone,
anch’egli ferito ad una gamba, anch’egli privo di aiuto, in mezzo ai ghiacci e ai cadaveri: siamo solo due vivi fra
tante ombre lugubremente fredde e distese. Ci trasciniamo l’uno verso l’altro.
Forza Maccarana, forza! Ancora un poco e saremo vicini: ci faremo compagnia. Ho bisogno di te, fa’ presto! Ho bisogno di
sentire che c’è ancora qualche cosa di vivo in questo carname glorioso. Forza Maccarana! Pensa a quando saltasti
acrobaticamente una siepe, ad Alpignano, per fuggire alla «ronda» che voleva pescarti senza permesso.., alla fuga veloce
attraverso i campi... ai muri della Caserma scalati in silenzio... Certo: avevamo appena mangiato polenta e coniglio tra
grande scintillio di bicchieri e di risa... ed avevamo le gambe buone... Ma no, non pensare a queste cose, altrimenti il
cuore ti scoppia e ti arresti in mezzo alla neve: ora
siamo soli nel buio, nel gelo, dimenticati
No, non del tutto dimenticati: ecco un’ombra correre balzelloni giù dal pendio; due ombre: un alpino ed un mulo; sono
venuti apposta per noi per rimorchiarci fuori da questo disperato silenzio di morte, per ricondurci sulla pista battuta,
dove un rigagnolo di gente viva, scorre verso la Patria.
Non ho più visto, da allora, il giovane alpino del mio plotone; non ricordo il nome; non so neppure se è vivo.
Ma ogni anno, il 19 gennaio, quando scatta cronometrica l’ora dei ricordi, e rivedo le nevi di Skororib solcate da
guizzi di fuoco, io gli mando un grazie ed una benedizione. E sento una gran voglia di dare un bacio a lui.., e due al
mulo.Vittorio Bozzini
(da IL MONTEBALDO Sez. Verona)