Storie dei nostri veci |
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VITTORIO TOMASELLA' |
Dicembre 2008
Vittorio Tomasella, classe 1914, sergente alpino del Val Cismon (nella foto sopra è il secondo seduto da destra) era prima stato impegnato nel fronte francese, poi, fino alla primavera del ’42, in quello greco-albanese. Vittorio raccontava sempre di quando li avevano caricati tutti su un treno diretto a Brindisi e per la gran parte dei suoi commilitoni era la prima volta che vedevano il mare ed il resto d’Italia. Se ne stavano tutti seduti sui carri bestiame con le gambe penzoloni guardando fuori meravigliati. Poi in nave fino a Durazzo e quindi a piedi sulle montagne. Mesi estenuanti, una guerra che sembrava non finire mai. Poi giunse l’ordine di ripiegare e fu il caos. Si dice che dal punto di vista militare quella di Albania fu la più sporca e stupida di tutte le guerre. Perché fu la guerra dei pidocchi, del fango, della fame, del freddo. Tanti morirono di freddo in montagna, altri di malaria in pianura. Qualcuno morì addirittura per il morso di una vipera entrata nella tenda. Se si esclude la drammatica ritirata del Don, la guerra in Albania fu peggiore anche di quella di Russia. L’unica cosa che contava in quei giorni era riuscire a vivere. La guerra è malvagia ed è sempre da condannare. Ma fa sì che tra gli uomini nasca una grande fraternità. Sbocciò così sui monti dell’Albania una straordinaria amicizia tra il sergente Vittorio Tomasella e l’alpino Albino Deon. Una amicizia cementata dalla durezza del fronte, dal vedere il mondo alla stessa maniera, dal comune disprezzo per quella guerra insulsa che, loro malgrado, erano stati mandati a combattere, dall’amore per la terra. Certamente Vittorio avrà raccontato ad Albino della sua famiglia, anzi della sua “strana” famiglia: a Castello Roganzuolo due famiglie convivevano in una stessa grande casa rurale impegnati in una vastissima campagna. Le famiglie Tomasella-Dal Mas vivevano in una specie di bifamiliare dove in comune c’era la cucina (ogni giorno sedevano a tavola settanta persone, uomini, donne, vecchi e bambini), la stalla e la conduzione dei campi. Una campagna bellissima situata tra la statale Pontebbana e la ferrovia, con i campi rossi di papaveri a primavera, poi gialli di grano, i profumi intensi della fienagione, i giganteschi cedri della casa padronale, i mille suoni coperti ora dal fischio del treno, ora dal salto dell’acqua che dal grande canale veniva deviata nelle canalette che si diramavano come tentacoli nel verde. Una amicizia fraterna quella tra Vittorio e Albino, un senso di protezione reciproca che durò per quanto fu lunga la campagna di Albania. Poi il ritorno in Italia, dove a Vittorio fu concessa una licenza di un mese e mezzo e ad agosto partenza per la Russia. Qui l’avventura non durò a lungo perché ebbe la fortuna, si fa per dire, di rimanere ferito. In una azione di pattugliamento una pallottola sparata da un cecchino gli trapassò di netto la tibia della gamba destra. Una ferita che non fu mai rimarginata, ma che consentì a Vittorio di tornarsene dalla Russia prima che si scatenasse quell’inferno che tutti conosciamo e che è la pagina più tragica fra tutte quelle vissute dagli Alpini. Ospedale militare di Bologna poi a casa per una lunga convalescenza, nel corso della quale poté portare all’altare Caterina Campodall’Orto. Vittorio pensava che fosse finita qui. Era partito per la naia nel ’35, Battaglion Cadore, nel ’39 era stato richiamato nel Val Cismon, da sette anni ormai vestiva il grigioverde… No, non era finita qui. Non bastava che avesse dato alla patria gli anni migliori della sua esistenza, che fosse stato impegnato su tre fronti, che avesse una gamba forata da parte a parte e che avesse messo su famiglia: nel giugno del ‘43 dovette ripresentarsi a Udine dove, dopo il tragico epilogo della spedizione in Russia, veniva ricostituito il Val Cismon. L’otto settembre lo sorprese a Santa Lucia di Tolmino, allora territorio italiano, dove il suo battaglione era pronto per essere di nuovo impegnato sul fronte balcanico. Da giorni ormai era un tira e molla, un andare e tornare da un paese all’altro della Slovenia nel tentativo di non spingersi troppo ad est, avendo capito tutti che tutto stava per saltare. Quel giorno con la sua compagnia Vittorio si trovava accampato nel campo sportivo del paese. Con un passaparola il capitano informò gli alpini che quando avessero sentito un colpo di pistola tutti se ne potevano andare per la propria strada. Il colpo di pistola fu sparato alle otto di sera. Vittorio non ebbe dubbi: in quel marasma dove nessuno capiva più niente, dove regnava solo confusione e nessuno era in grado di dare ordini, l’unica certezza era la sua famiglia che lo aspettava. Parve interminabile il percorso che lo riportava a Castello Roganzuolo: a piedi fino a Cividale via Castelmonte, poi in treno per Gemona, Pinzano e Sacile, un viaggio rocambolesco appeso ad un vagone preso al volo. Vittorio sgattaiolava via prima che il convoglio entrasse nelle stazioni, già controllate dai Tedeschi, per poi risalirvi subito dopo. A Cividale era riuscito a procurarsi un abito borghese. Nei giorni successivi l’otto settembre la divisa segnò il destino di migliaia e migliaia di uomini. E tanti ebbero salva la vita solo perché riuscirono a sostituire la divisa grigioverde con un abito borghese. Da Pianzano Vittorio raggiunse casa attraverso i campi adiacenti alla ferrovia. E lì rimase, nascosto, fino alla fine della guerra, protetto dalla sua famiglia. Ebbe la fortuna che non capitò ad altri seicentomila militari italiani, e cioè a Vittorio furono risparmiati i venti mesi di lager carichi di tante situazioni: le lusinghe per aderire alla repubblica di Salò, la fame, la miseria, le umiliazioni. Partecipava ai lavori nei campi, sempre pronto ad eclissarsi, in caso di emergenza, nei nascondigli che poteva offrire la campagna e nel rifugio allestito contro i bombardamenti, scavato ai bordi del grande orto di casa, tre metri sotto terra. Ne erano stati costruiti addirittura due nella grande casa Tomasella-Dal Mas, uno per gli uomini ed uno per le donne… Finita la guerra la lapide che sul muro della chiesa ricordava i caduti del primo conflitto venne affiancata da quella con il triste e lungo elenco dei caduti e dispersi del secondo. Ma si cercò di dimenticare per andare avanti, lavorare, ricostruire. La voglia di tornare a vivere imponeva di scordare le tremende devastazioni della guerra. I ricordi però pesano e, anche se assopiti, prima o dopo ritornano. Come seppellire il passato quando il passato è lì, davanti… Con il passare degli anni il flusso del pensare vagabondo restituì a Vittorio vicende lontane e vicine, difficili memorie di guerra e gioiose scene di incontri, volti di persone care e di amici. A tutto questo contribuiva una foto che da sempre teneva nel portafoglio: quattro commilitoni sulle montagne dell’Albania davanti ad un mortaio. L’alpino di sinistra era il sergente Tomasella, quello di destra l’alpino Deon. Deon, Albino Deon, l’amico fraterno. Si erano salutati dopo l’Albania con la certezza che si sarebbero rivisti ancora, sempre, poi le loro strade si erano divise. Quell’amicizia andava oltre la guerra perchè aveva radici profonde e non era stata sminuita né dalla distanza, né dal tempo, né dal silenzio. Vittorio cominciò a cercare Deon nei primo anni ‘80. Non ricordava bene la sua provenienza, forse non l’aveva mai saputa, labili indizi gli suggerivano il Quartier del Piave. Toccò al figlio Mariano scorazzare il padre per sabati e sabati, fermandosi a chiedere nelle osterie dei paesi, nelle canoniche delle parrocchie. Cison, Follina, Vidor, Segusino, Sernaglia, Covolo, Pederobba… qualche Deon saltava fuori, ma di Albino Deon nulla, inghiottito nel nulla, svanito senza lasciare un segno. Ad un appello pubblicato sull’”Alpino” avevano risposto alcuni reduci, altri erano arrivati ad incontrare Vittorio a casa, con informazioni… Nulla. E venne Rossosch, un giorno atteso dagli alpini da 50 anni, quando lavorarono fianco a fianco sezioni italiane ed estere, alpini, ufficiali, caporali, generali. Lavorare nel cantiere dell’asilo fu come ricordare il padre o il nonno o un congiunto che dalla Russia non era mai tornato e non aveva nemmeno una tomba o, se una tomba c’era, nessuno vi aveva mai deposto un fiore. O ricordare anche chi era tornato dopo essere uscito vivo da quell’inferno di fuoco e di ghiaccio e quando al confine era sceso dal treno per salutare la bandiera e sentire ancora una volta la terra natale sotto i piedi era stato fatto risalire in fretta, sportelli chiusi a chiave e finestrini rialzati. Perché l’ordine era che nessuno doveva vedere gli alpini che con le loro divise lacere ed infestate dai pidocchi, malati di dissenteria, sporchi e malmessi, facevano schifo… All’operazione Rossosch parteciparono anche i quattro figli di Vittorio Tomasella: Luigino, Piero, Aldo e Mariano, due sono alpini. La loro ditta provvide alla costruzione e fornitura delle attrezzature-gioco dell’asilo. Per la messa in opera Aldo si recò in Russia con l’ultimo turno, partenza da Bergamo, scalo a Voronez. Qui, una volta atterrato l’aereo rimase in pista con i motori accesi per accogliere direttamente i volontari del turno precedente che facevano ritorno in Italia. “Piacere, Deon”, si sentì dire Aldo da un alpino che gli stringeva la mano. Non ci fece caso, poi ricordò che Deon era il nome dell’amico che il padre cercava da una vita. Intanto nel 1994 Toio Tomasella era “andato avanti”. Era orgoglioso che i suoi figli fossero andati a Rossosch, non potevano fargli regalo più grande, anche se non se l’era sentita, l’anno prima, di ritornare in Russia con Luigino e Mariano per l’inaugurazione dell’asilo. Due anni dopo la Sezione Alpini della Svizzera organizzò a Bellinzona un incontro per tutti coloro che avevano partecipato all’“Operazione Sorriso”. Aldo casualmente rivide Deon, l’alpino che lo aveva salutato a Voronez. E non lo mollò. Era Deon Orlando, aveva guidato gli alpini svizzeri che avevano gestito a Rossosch la messa in opera dell’impianto elettrico. Era andato in Russia per ricordare lo zio, Deon Albino. Albino abitava a Crocetta del Montello. Anche lì la guerra aveva subito presentato il suo conto: povertà e mancanza di lavoro. Deon era emigrato in Svizzera dove lavorava in miniera. Era di servizio una domenica pomeriggio del 1953 quando l’imbocco della galleria era stato ostruito da un piccolo cedimento. Entrato per liberare il passaggio, Albino era stata sorpreso da una seconda frana che lo aveva sepolto per sempre. Da 40 anni Deon non c’era più. Vittorio lo aveva cercato invano, ma la loro amicizia era così grande che avevano continuato a cercarsi anche dopo la morte. E si erano ritrovati. Ogni anno Aldo Tomasella e Orlando Deon si danno appuntamento per l’adunata. Ma è come se si incontrassero Vittorio e Albino. E si raccontano del Val Cismon, dei vecchi amici di naia, di quando scendevano lungo la costa adriatica per raggiungere Brindisi e se ne stavano tutti seduti sul carro bestiame con le gambe penzoloni a guardare l’azzurro del mare, della nave che li portava a Durazzo e loro distesi sul ponte, pancia all’aria, a prendere il sole che li accecava. Davanti ad un bicchiere, pronti a schierarsi per l’ammassamento e sfilare. Assieme.
Gianfranco Dal Mas
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