DON CARLO GNOCCHI


Dicembre 1996

DAL CIELO BENEDICE LE OPERE DEGLI ALPINI

E’ IN CORSO IL PROCESSO DI BEATIFICAZIONE

A quarant'anni dalla morte del "Santo Alpino", eroico protagonista della ritirata di Russia, ho letto e riletto con attenzione e con devozione "Cristo con gli Alpini" (che consiglio a tutti gli alpini e non), memorie scritte dal Santo Prete-Alpino don Carlo Gnocchi, al suo ritorno in Patria dopo il disfacimento della campagna di Russia.  Non ho parole per spiegare quello che ho provato.  Certamente è una lettura che colpisce in profondità l'animo.
Suscitò scalpore, a suo tempo, il fatto che, morendo, don Carlo Gnocchi avesse fatto dono delle sue cornee, che ridettero la vista a due ragazzi: era l'anno 1956.
Don Carlo Gnocchi, nato nel 1902 a San Colombano al Lambro e morto a Milano il 28 febbraio 1956, esercitò il suo ministero dapprima nella parrocchia di San Pietro in Sala e poi all'Istituto Gonzaga, sempre nel capoluogo lombardo.
Allo scoppiare della seconda guerra mondiale fu arruolato come cappellano degli Alpini e inviato poi al fronte greco, albanese, in Montenegro e in Croazia con la Divisione Julia, poi al fronte russo con la Divisione Tridentina. Durante la tragica ritirata di Russia si guadagnò la medaglia d'argento sul campo. Rientrato a Milano alla fine del 1944 don Carlo Gnocchi si dedicò all'assistenza delle vittime più incolpevoli della guerra: gli orfani dei soldati e i fanciulli mutilati per i quali ha fondato la Pro Juventute, che assiste attualmente oltre ventimila bambini e giovani handicappati in una rete di Centri medico sociali tra i più efficienti d'Europa.
Il libro è una testimonianza umanissima - piena di dolore e di speranza cristiana - di un sacerdote in grigio verde, rimasto accanto ai suoi alpini, nell'ora tragica e, per molti, dello straziante congedo dalla vita.
Don Carlo Gnocchi visse il dramma di una sconfitta incolpevole e immeritata tragico braccio di ferro con la morte un dramma umano e cristiano.  Rileggendo le sue pagine risentiamo il suo cuore ferito da un'angoscia che non lo lascerà più.
Sono pagine che si offrono volentieri in lettura alle nuove generazioni, ai figli dei suoi alpini, che forse ricordano il suo nome, ma non sanno "il cor ch’egli ebbe" e l'animo intrepido nel servire i fratelli nell'ora della verità.
Com'è noto, è in corso la causa di beatificazione da parte della Chiesa: la sua fama di santo la godette subito dopo la scomparsa.  Eloquenti sono i pensieri di alcuni personaggi alpini e non, commenti che illustrano la straordinaria spiritualità ed umanità del personaggio, umile ma forte, soprattutto, nell'interiore.
Singolare è il contenuto del libro: in tutti i suoi capitoli c'è la visione della tragicità e fragilità dell'uomo, confortata dalla fede.
Ho scelto un capitolo che manifesta attraverso l'occhio e il contatto dell'alpino-prete, con descrizione giudiziosa e pertinente - la realtà di un popolo, di quei tempi: "ENIGMA DELLA RUSSIA".

ENIGMA DELLA RUSSIA

Com'era stento e pur miracoloso il sole invernale di quel mattino di febbraio, quando nella processione lenta e miserabile dei fuggiaschi, incamminata verso il vuoto e l'infinito, cominciarono a serpeggiare le prime voci incredule di libertà!  Si diceva che la testa della colonna avesse preso contatto con le linee tedesche della resistenza... ma neppure l'incredibile notizia era stata capace di rianimare il passo spento e la fiducia di quella torma disfatta e inebetita. lo poi mi sentivo giunto ormai all'estremo delle forze e quasi della vita.  Cadevo nella neve fresca e mi rialzavo ubriaco, arrancando col nodo arido della disperazione in gola.
«Andate, continuavo a dire ai compagni, andate avanti e lasciatemi qui.  E' inutile arrischiare di rimanere tutti prigionieri per me».  E mi lasciarono infatti febbricitante sul pavimento di un'isba solitaria, quando già nella sera lontana e vuota brontolava il cannone dei russi incalzanti da ogni lato. «Pope balnoi» avevano detto alla donna russa prima di andarsene.
E' un prete, malato.  Ed una fiamma di intensa pietà aveva, per un istante, illuminato i suoi occhi neri e luttuosi.
Tutta la notte, quella favolosa notte senza tempo e senza confini, vidi accanto a me inginocchiata una donna a porgermi qualche tazza di brodo, silenziosamente. (il brodo preparato forse con l'ultima gallina salvata, per la fame dei propri figli, alla furia famelica di quell'orda in ritirata).
Né quel gesto di umana e materna pietà verso un nemico deve sembrare strano o eccezionale.  Quando finirci o buttarci per la strada sarebbe stato come scacciare o accoppare un cane randagio, noi abbiamo visto tutta la popolazione rurale della Russia Bianca e dell'Ucraina, accampata tra i ruderi, decimata dalla fame e dall'occupazione tedesca, aprirci le porte delle tiepide case, metterci a dormire nel proprio letto, per andare essi nel pagliaio, medicare le nostre ferite e i congelamenti, dividere con noi le ultime riserve di viveri, sottrarci alla cattura, additarci la via della salvezza e della fuga; tutto con la silenziosa e semplice naturalezza di un rito normale e doveroso.
A Podgomoje una donna, al sopraggiungere dei russi, aveva cacciato a viva forza un Cappellano Militare nella botola del grano, rimanendovi sopra impavida e indifferente, fintanto che la perquisizione non fu finita.  A Postojali, un villaggio perduto e riconquistato più volte sanguinosamente dagli alpini, mentre andavo raccogliendo sul corpo irrigidito dei caduti le piastrine di riconoscimento, mi sentii richiamato dai colpi battuti nei vetri di un'isba. Mi voltai e vidi affacciato dall'interno alcuni alpini. «Siamo in parecchi, mi dissero, raccolti nelle isbe del paese.
Questa notte la popolazione ci ha preso dalla strada dove saremmo certamente morti di congelamento, ci hanno curato, nutrito e i più gravi, li hanno mandati al più vicino Ospedale ... » E quando cominciammo a caricare quei feriti sulle slitte e sugli autocarri (eravamo ancora ai primi giorni di quella spaventosa ritirata e potevamo disporre di qualche mezzo di trasporto) vi furono donne russe che si attaccavano alle barelle, implorando di non portarli via perché sarebbero morti di fame e di freddo nella steppa.  E del resto, chi tra i superstiti di quella paurosa e irripetibile avventura non è in grado di raccontare o non fu oggetto di episodi di tal genere al quali deve la sua libertà e la vita?
Gli è che in Russia l'ospitalità è sacra, anche per il nemico: almeno tra il popolo e là dove l'educazione politica non ha ancora intaccato le qualità originarie e tradizionali della stirpe.  E come potrebbe essere diversamente quando i contadini e gli artigiani fanno centinaia di chilometri per recarsi ai centri di raccolta e di scambio dei prodotti della terra e del lavoro, attraversando regioni scarsamente popolate o completamente prive di ogni pubblico albergo, col caratteristico carrettino trainato dal capo famiglia e sospinto con un bastone dalla donna e dai figli (il più piccino sul colmo del carretto, tra gli stracci, ridente e irrequieto)?  E non appena la sera allaga la pianura tristemente, accostano il carrettino al muro dell'isba più vicina e, salutando urbanamente, entrano per sedere alla mensa comune e per fruire dell'ospitalità più completa.
Che se vi sono episodi ed aspetti esattamente opposti a questi, io credo che essi debbano attribuirsi a popolazioni e zone ancora incivili della vasta e multiforme nazione russa. (Quando noi in agosto eravamo attestati sul basso Don, ci avvenne più volte di aver a che fare con reparti dell'esercito russo quasi selvaggi: mongoli, kirghisi, ecc.). O meglio ancora, io credo che tali episodi di crudeltà e di durezza sono da attribuirsi assai più al regime che al popolo stesso.  Poiché, come in tutte le dittature, l'uno non coincide con l'altro, anzi, raramente come in Russia, appare evidente la frattura tra l'uno e l'altro.
E' vero. Noi soldati del fronte russo non abbiamo visto la Russia, ma il cadavere della Russia, quale ce lo lasciava in mano l'esercito russo in ritirata.  Una ritirata «scientifica», nella quale ogni uomo valido veniva inesorabilmente rastrellato, ogni stabilimento ridotto a un groviglio di travi bruciacchiate e contorte ed ogni agglomerato civile trasformato in un cumulo informe di macerie polverose.
Perfino le rotaie del treno venivano metodicamente spezzate a intervalli.
Si diceva che i russi disponessero per questo di un carrello con un martello pneumatico da agganciare all'ultimo treno in ritirata... Certo è che i russi possiedono per istinto e per tradizione la scienza della «terra bruciata» alla quale il progresso moderno ha fornito nuovi e più formidabili mezzi di distruzione.
Ma se è anche vero che noi abbiamo visto soltanto il cadavere della Russia (tutto quanto del resto è stato finora possibile ad osservatori inqualificati vedere della Russia) qualcosa può certamente dedursi sulla vita e sull'organizzazione di questa nazione.
Allora una cosa è certa: che pochi regimi sono più impopolari di quello bolscevico.  Provatevi a chiedere a qualunque russo che sappia di poter parlare senza timore, che cosa pensi di Stalin e vedrete.
Quante volte, andando per le case e chiedendo spiegazione delle fotografie familiari che ogni buon russo tiene bene in vista nella casa e spesso sotto il vetro di un tavolo (con la ghiottoneria propria di ogni popolo primitivo) ci siamo sentiti rispondere, non senza la caratteristica occhiata circospetta e una significativa attenuazione della voce: «Questo è mio fratello, è mio figlio, è mio padre... caput Stalin, caput Lenin... L'ha ucciso Stalin, l'ha ucciso Lenin».

Racconto degli episodi

A Nowo Gorlowka un ingegnere russo ci accompagnava nella visita di un colossale stabilimento, imponente pur nella spaventosa distruzione.
«Che cos'è quel filo che corre sul muro di cinta? » domandammo. « Là - rispose - erano attaccati dei cani mastini per la difesa dello stabilimento e per impedire agli operai di evadere... Voi dovete sapere - aggiunse per calmare la nostra sorpresa interrogativa e col rituale abbassamento della voce - che da noi esiste la leva industriale dei giovani contadini.
Molti però di costoro tentano spesso di ritornare alla campagna e allora... Gli operai sono tenuti con una disciplina di ferro, quasi militare.
Chi produce poco e malamente, sabota la produzione e viene fustigato dinanzi ai compagni; spesso fino al sangue, Se la colpa è più grave o ripetuta, si può andare anche al confino, magari in Siberia.  Vengono di notte, bussano alla porta di casa e un uomo scompare per anni e spesso per sempre.
Se il fatto è gravissimo, sempre dal punto di vista della produzione o della disciplina di partito, si finisce contro quel muro.  Ecco - disse additandoci un muro crivellato di colpi - quello è il muro delle esecuzioni.  In uno stabilimento così grande c'è sempre qualcuno che finisce là contro ... ». Né meno evidente è la frattura nella compagine militare.
Un giorno di agosto, nella terra di nessuno davanti al Don, una piccola pattuglia di alpini incappa in un pattuglione russo al comando di un commissario politico.
Resa, disarmo e incolonnamento dei nostri verso le linee nemiche.  Ma non appena il Commissario, impartiti gli ordini, risale sulla sua vetturetta e scompare, i soldati russi restituiscono le armi ai nostri, si incolonnano e rientrano prigionieri nelle nostre linee...
Come tutto questo si componga con il perdurare del regime comunista, e con l'autentico eroismo dimostrato dai soldati russi in guerra io francamente non saprei dirlo.  Passività, inerzia costituzionale e abitudine millenaria al servaggio verso i poteri costituiti (la servitù della gleba fu abolita in Russia non più di cinquant'anni fa)?
Risveglio di forze insospettate e latenti operato dalla condotta politica tedesca sgraziata e incauta?
Vastità e varietà di una nazione dove ogni movimento unitario è destinato a disarticolarsi e a spegnersi nella lontananza?
Incantamento ed esaltazione puerile di un popolo primitivo di fronte alla potenza industriale e meccanica creata innegabilmente dal regime (pur senza riuscire a dare un benessere proporzionato agli individui, perché il popolo russo è, prima che un popolo proletario, un popolo di poveri e il suo tono di vita è molto al di sotto di quello dei popoli occidentali) ?
Non sappiamo e forse difficilmente sapremo. Non tanto per la severa clausura nella quale si è chiusa la Russia, quanto per la natura misteriosa dell'anima slava.
E poi il tormento profondo e quasi tellurico di questo popolo dall'ispirazione messianica è ancora ben lontano dall'aver preso coscienza di sé e chiarificazione; esso è ancora allo stato informe e contraddittori; è un faticoso crogiolo nel quale si incontrano e ribollono gli elementi delle più disparate civiltà e maturano le esperienze estreme della nostra epoca rivoluzionaria e malata.
Scriveva G. Giusti: "La fede in Dio e quella del proprio simile per me si danno la mano, e l'ateo è di necessità il primo nemico del genere umano e di se stesso".
La fede del popolo russo non è mai stata messa in discussione.
Oggi gli alpini hanno creato con esso un rapporto di amicizia e di solidarietà, hanno lasciato su quella terra che fu anche il loro calvario, una memorabile opera per questa e le future generazioni, segno tangibile di amore e di pace.

RENATO BRUNELLO

vedi anche La storia di don Carlo