7° ALPINI


Febbraio 1965

STORIA DEL 7° ALPINI

Il dimenticato sacrificio italiano nell'Albania di 45 anni fa

inizio
(15a puntata)

Nella «Storia d’Italia» — opera in cinque grossi volumi pubblicata sotto gli auspici del Comitato ordinatore della Mostra storica dell’Unità d’Italia in occasione delle Celebrazioni del primo Centenario, e che mi sono acquistato con non lieve sacrificio ritenendo di assicurarmi una fedele fonte di notizie — non ho trovato il minimo accenno all’opera del nostro Esercito in territorio albanese nel periodo dal 1918 al 1920.
Per quanto riguarda la partecipazione del Battaglione «Feltre» del nostro 7° Alpini alle operazioni in Albania, ho trovato sicuro riferimento nella storia del reggimento di Manlio Barilli (cui devo la più parte delle notizie che da tempo vado qui sunteggiando) e, per la parte generale, nella documentata «Storia popolare della Grande Guerra» lasciataci da Roberto Mandel, il generoso, fecondo e dimenticato scrittore trevigiano che ricordo arrivava timidamente con una traballante bancarella nella sua città natale nella speranza spesso delusa di vendere le sue belle opere con una cordiale autografa dedica all’acquirente.

Durante il corso della guerra gli austriaci avevano occupato la parte settentrionale dell’Albania e gli italiani la parte di mezzogiorno; gli albanesi s’erano fatti mercenari dell’una o dell’altra parte e il loro governo praticamente non esisteva.
Il Corpo italiano di spedizione subiva notevoli aggressioni specie verso la strada Santi Quaranta-Florina che era indispensabile disporre per il collegamento con i reparti italiani dislocati in Oriente.
Verso la metà di maggio del 1918 gli italiani rafforzarono le proprie posizioni e il giorno 18, coadiuvati da reparti irregolari albanesi e francesi, attaccarono le linee avversarie con vari combattimenti proseguiti fino al 20 maggio; gli austriaci, e le bande albanesi a loro favorevoli, si ritirarono oltre il vallone di Cerevoda, su per le balze del Monte Tomor, per cui la linea italiana venne ad estendersi lungo le alture di Cerenisti, di Zogas, di Bolen, di Ciafa e di Podum.
Precaria era però la situazione nella zona di Valona, e i rifornimenti che giungevano dall’Italia erano minacciati dai sommergibili nemici facilitati dalle segnalazioni che ottenevano dalle truppe austro-magiare che occupavano le cime di Malakastra a settentrione della baia di Valona.
Si presentò quindi la necessità di consolidare l’occupazione anche perché c’erano motivi di pensare che la Francia alleata predisponesse un suo consolidamento in Albania sebbene l’interesse a costituirvi un protettorato fosse ben più giustificato per l’Italia.
Venne quindi deciso di attaccare per i primi giorni di luglio fra l’Ostrovica e l’Adriatico, lungo un fronte di poco meno di cento chilometri e tenuto da ventitre battaglioni avversari. Le forze erano limitate essendo impossibile distoglierne dal fronte sul Piave, ma con due colonne d’urto sulle ali estreme del nemico e una terza colonna meno pesante al centro, l’azione iniziò ugualmente il 6 luglio; era previsto l’appoggio del forte contingente francese ma esso mancò per cui i nostri reparti agenti sull’ala destra (due battaglioni di guardie di finanza e due d’irregolari albanesi, comandati dal col. Treboldi) dovettero rinunciare a conquistare il Tomor.
La colonna centrale — agli ordini del Gen. Rossi — varcò la Vojussa infilando la grande strada che porta da Tepeleni a Bernt; la colonna di sinistra, comandata dal Gen. Nigra e composta da una divisione, superò pure la Vojussa occupando il bosco di Ferasa (che si estende intorno a Levani) coadiuvato dai tiri delle artiglierie navali. Ottima fu la prova degli squadroni di cavalleria operanti tra la Vojussa ed il Semeni e che occuparono tra l’altro l’aeroporto che gli austriaci avevano costruito a Fieri, caricando poi i difensori al ponte sul Semeni.
Anche al centro la colonna italiana otteneva larghi successi marciando su Izvori e sulle pendici del Ciafa Giava facendo sgomberare gli austriaci dal Malakastra, mentre i bersaglieri salivano sullo Zelenik.
I francesi non diedero il minimo del concordato appoggio alle truppe del Col. Treboldi, le quali rinnovarono gli sforzi sui Tomor finalmente coronati col proseguimento verso l’alto Semeni e il Devoli, anche a causa dell’arretramento cui dovettero decidersi gli austriaci in conseguenza dei nostri successi sugli altri due settori dove i reparti del generale Nigra avevano raggiunto il Basso Semeni e quelli del Generale Rossi s’erano impadroniti delle alture di Signa.
Le perdite complessive non furono rilevanti (150 morti e 700 feriti) mentre molti furono i risultati tra i quali la cattura di duemila nemici.
Notevole fu però la fatica sopportata dai nostri soldati in questa dura impresa in un paese primitivo privo di strade e di acqua potabile, mentre i pestilenziali pantani resero presto diffuse le peggiori malattie tra le quali la malaria.
Ciò nonostante il XVI Corpo d’armata italiano si spinse ancora avanti fino al 30 luglio nell’intento di interrompere la continuità del fronte nemico tenuto da austriaci e bulgari. Il generale Pfanzer Daltin riuscì pero a fronteggiare i ventitre battaglioni (assottigliati da ventimila ricoverati in preda a febbri malariche) con 43 battaglioni austro magiari, per cui il nostro comando dispose l’arretramento dalla vallata del Semeni e dalle alture di Signa fino a che il nemico perdette buona parte della sua capacità d’urto.
Nella fase di attacco cadde (7 luglio 1918) il Magg. Leopoldo Reverberi comandante del’85° reggimento della Brigata Verona (operante intorno a Stula) che venne decorato di medaglia d’oro come pure il capitano Francesco Biondo comandante di una compagnia del 15° Regg. (Brigata Savona) — che cadde il 23 agosto nella vittoriosa difesa della Malakastra.
Il 30 settembre la Bulgaria capitolava e la 35° divisione italiana in Macedonia avanzava profondamente a lato dell’Albania; il 2 ottobre Durazzo venne fortemente colpita con un bombardamento aereo-navale che, in tre ore di fuoco, distrusse gli apprestamenti militari creati dagli austriaci in quasi tre anni di occupazione.
Resa estremamente difficile la permanenza austriaca nell’Albania settentrionale, il XIX Corpo d’armata del generale Baltin ripiegò sollecitamente inseguito con altrettanta sveltezza dalle nostre truppe (scarsamente armato o con limitatissimi mezzi dl trasporto) che raggiunsero presto Io Skumbi, il 14 ottobre Durazzo e il giorno successivo Tirana.
Il 25 ottobre il Generale Piacentini assumeva il comando di tutte le forze italiane nei Balcani, e, dopo una breve sosta per ripristinare i collegamenti, l’avanzata venne ripresa oltrepassando il Mali, conquistando Scutari il 31 ottobre, Tarabose, Dulcigno, Dobrovada e Antivari, riducendo gli austriaci al solo caposaldo di Cattaro: era però ormai il 4 novembre 1918.
Tentativi di intervento a proprio favore furono fatti dai Serbi, ma soprattutto dagli alleati francesi i quali avevano sempre mirato all’Albania e che — dopo segreti colloqui a Salonicco — predisposero una feroce guerriglia contro gli italiani da parte di bande albanesi raccolte da Essad pascià, un capo bandito geniale ed audace che aveva l’ambizione di signoreggiare in Albania.
Ancora in ottobre Essad pascià aveva attaccato Alessio con cinquecento guerriglieri ma i nostri soldati erano intervenuti prontamente catturando loro anche tutte le armi fornite dai francesi.
Mentre a Parigi si stava tradendo l’incommensurabile sacrificio italiano, le bande albanesi fornite di armi e munizioni di provenienza «sconosciuta» e sollecitate all’odio verso gli italiani, si davano al massacro e alla devastazione per cui fu necessario rinforzare il Corpo di spedizione italiano; nell’agosto 1919, vennero infatti inviati in Albania due gruppi alpini: il II al comando del Col. Sassi prese posizione tra Scutari e la Valle del Drin Nero; il XVI agli ordini del Col. Rambaldi (comprendente i battaglioni «Fenestrelle», « Dronero » e il «Feltre » del 7°) fu dislocato nella regione Mathi e poi sull’alto Skumbi.
In particolare, il Battaglione « Feltre » — ancora al comando del ten. col. Nasci — venne prima inviato in Mirdizia, nella zona di Orosci, dove affrontò con decisione le agguerritissime bande ribelli.
Anche in Italia si accresceva però il disordine interno e il governo non riusciva a tenere le redini della povera Italia defraudata nei suoi diritti in sede internazionale ed ora sconvolta dai suoi figli peggiori.
Nell’estate del 1920 il generale Piacentini chiese urgenti rinforzi per l’Albania e il ministro della guerra gli rispose col seguente telegramma:
«Condizioni interne del Paese non consentono prelevamento truppe per l’Albania; tentativo invio rinforzi provocherebbe sciopero generale, dimostrazioni popolari, con grave nocumento della stessa compagine dell’Esercito che non occorre mettere a dura prova».
Per motivi elettorali il capo del governo proclamò a Roma che non solo abbandonava l’Albania ma anche tutti i nostri soldati che vi si trovavano.
Le truppe italiane dovettero allora iniziare a ritirarsi dall’Albania, che avevano prima interamente occupata, subendo taglie, lasciandosi depredare, abbandonando i pochi materiali che restavano; per conservare Valona gli alpini e le altre tradite truppe italiane sostennero vittoriosamente le battaglie di Drascovizza e della linea tra il Longia e il Messovum.
Le posizioni più avanzate di Valona erano presidiate da piccoli reparti staccati del 72° Fanteria comandato da Enrico Gotti al quale giunse la nomina a generale ma che non volle lasciate i suoi uomini.
Assalite da forze quindici volte superiori, il 6 giugno le nostre avanguardie resistettero dieci ore fino all’esaurimento delle munizioni e dell’acqua, dopo di che il Gen. Gotti dispose per il salvo della bandiera e dei fondi del Reggimento e andò dai ribelli per trattare: venne ucciso a tradimento da un capo albanese.
Alla memoria di Gotti venne decretata la medaglia d’oro, come pure al caporale Arduino Miccinesi del 95° Reggimento, il quale — il 23 luglio — affrontò le orde albanesi per due ore con la mitragliatrice e disperdendole poi a bombe a mano.
Valona e il suo hinterland erano destinati all’Italia già col patto di Londra del 26 aprile 1915 che regolava la nostra partecipazione alla guerra a fianco degli alleati, ma il 3 agosto 1920 venne firmata a Tirana la rinuncia italiana a Valona, conservando solo I’isolotto di Saseno; in seguito venne ritirato anche il presidio rimasto a Durazzo.
Tra caduti in combattimento e deceduti per malattie il battaglione «Feltre» ebbe a perdere, in meno di un anno di lotta in Albania, 122 uomini e molti tornarono ammalati; due medaglie d’argento e cinque di bronzo individuali fanno capire quanto fu valoroso il comportamento del battaglione anche nella triste ed inutile impresa albanese nel corso della quale rifulse nuovamente l’eroismo di Vittorio Montiglio da meritargli, anche per il valore dimostrato sui fronti delle Alpi, la medaglia d’oro con la seguente motivazione:
«Nato nel lontano Cile da famiglia italiana, educato da alti sentimenti di amor patrio, l’animo conquiso dagli eroismi e dai sacrifici della nostra guerra la cui eco giungeva a lui attraverso le lettere di due fratelli volontari al fronte, quattordicenne appena, lasciò la casa paterna e, sprezzante dei pericoli e disagi, venne alla sua Patria. Nascondendo con la prestanza del fisico la giovane età si arruolava nell’esercito e, dopo ottenuta l’assegnazione a un reparto Territoriale, per la sua insistenza veniva trasferito a un reparto Alpino d’assalto, ciò che era nei sogni suoi giovanili e nelle sue speranze.
Sottotenente a quindici anni, comandante gli arditi del battaglione «Feltre», partecipò con alto valore ad azioni di guerra, rimanendo ferito. Di sua iniziativa abbandonava l’ospedale per partecipare alla grande battaglia nell’ottobre ‘18, nella quale si distinse e fu proposto al Valore. Tenente a sedici anni, fu inviato col reparto in Albania, dove in importanti azioni contro i ribelli, rifulsero le sue doti d’iniziativa, non fiaccate dalle febbri malariche dalle quali venne colpito. Nella stessa località, salvando con grande rischio un suo soldato pericolante, nelle insidiose acque del Drin, dava prova di elevata sensibilità umana e di civili virtù. Magnifica figura di fanciullo soldato, alto esempio ai giovani di che cosa possa l’amore alla propria Patria.
Italia - Albania, giugno 1917 - giugno 1920

Non a caso ho scelto per concludere il nome di Vittorio Montiglio il quale, come accenna la motivazione della medaglia d’oro, dovette far falsificare — già alla partenza dal Valparaiso — il suo certificato di nascita (pagando trenta pesos cileni) perché apparisse che era nato nel 1899 anziché la vera data deI 1903 perchè non avrebbe altrimenti potuto combattere.
Ha «imbrogliato» un po’ tutti su questa circostanza; anche il nostro Giovanni Piovesana che l’allevò tra le file del plotone arditi del « Feltre» e che era convinto di aver come subalterno un sottotenente di diciotto anni mentre invece non ne aveva che quindici.
Il valore di Montiglio venne riconosciuto anche dagli avversari albanesi che gli offrirono persino il comando di una delle loro bande! Conclusa quella tragedia e non ancora guarito dalle febbri che s’era preso, Montiglio andò invece legionario a Fiume dove gli affidarono il comando di un reparto d’azione.
Ebbene, quando ritornò a Udine, Montiglio venne posto sotto processo e subì tre mesi di arresto.., per falsificazione di documenti personali!
M.A.

(continua)