7° ALPINI |
Dicembre 1967 |
inizio
(24a puntata della storia del 7° Alpini)
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Nella rievocazione delle imprese dell’«Uork Amba» eravamo giunti (n. 1. del 1966) alla vigilia dell’ultima guerra quando il battaglione venne affidato al magg. Luigi Peluselli.
Unico della specialità in Africa Orientale, il battaglione era formato da alpini veneti, abruzzesi,
emiliani, friulani, genovesi, lombardi, piemontesi — di tutte le classi dal 1900 al 1917 — e provenienti da tutti i
reggimenti, dal 1° all’11°; come giustamente ebbe a dire il Comandante, l’Uork Amba stava in Africa orientale per tutti
gli Alpini d’Italia.
All’inizio del conflitto il battaglione venne assegnato alla sistemazione difensiva di Addis Abeba,
mentre gli sciftà cominciavano a molestare le nostre truppe. La zona affidata all’Uork Amba comprendeva una zona
vastissima, praticamente da Addis Abeba fino al fiume Bottego. Gli alpini di Peluselli, unitamente a una sola compagnia
coloniale, marciarono per sei giorni giungendo fin quasi ai Bottego e scontrandosi più volte con gli sciftà.
Verso la fine di gennaio del 1941 il battaglione ebbe l’ordine di portarsi all’Amba Alagi ove
giunse l’1 febbraio; gli ufficiali studiarono gli apprestamenti difensivi e lo fecero inutilmente perchè gli alpini
vennero invece portati all’Asmara e infine avviati a Cheren dove gli inglesi stavano già agendo pesantemente.
Tra il 6 e l’11 novembre il nemico si era preso una forte batosta
nel tentativo di forzare il nostro schieramento a Gallobat (verso Gondar) e a Cassala, e nei mesi successivi aveva
ricevuto larghi rinforzi di truppe (australiani, indiani, scozzesi, sudafricani, sudanesi, egiziani, arabi, greci e
persino la Legione straniera) e rifornimenti e mezzi modernissimi tra cui i carri armati tipo “I” (muniti di due
mitragliatrici e un cannoncino) e cannoni da 152.
Con una potenza sufficiente a schiacciare forze avversarie anche dieci volte superiori alle nostre
truppe, gli inglesi attaccarono con inaudita violenza, il 20 gennaio 1941, dal Kenia (puntando verso la Somalia) e dal
Sudan con obiettivo Asmara e Massaua.
Sul fronte nord l’attacco era stato imponente; un nostro gruppo di cavalleria indigena, guidato dal
tenente Togni, aveva travolto — sacrificandosi totalmente — una batteria avversaria a monte Cherù; le posizioni vennero
tenute ma la situazione comportò un graduale arretramento e disperati eroismi; contro i carri armati pesanti non
facevano presa i colpi dei nostri 77/28, e allora i nostri soldati uscivano allo scoperto in una lotta individuale di
piccoli uomini contro fortezze d’acciaio; Agordat cadde l’1 febbraio e i superstiti si portarono a Cheren dove il giorno
dopo giunsero di rinforzo, dall’Asmara e da Addis Abeba, l'11° granatieri, i bersaglieri, tre brigate coloniali, tre
squadroni di cavalleria indigena e la banda P.A.I.
Seguirono altri sei giorni di lotta durante i quali le truppe del generale Carnimeo (che aveva
assunto il comando della piazza) fecero pagare assai cari gli attacchi avversari sul Sanchil, sul Dologorodoc,
l’occupazione della Forcuta, il breve avanzamento sulla piana del Mogareb e l’avvicinamento al Colle dell’Acqua; l’8
febbraio i nostri soldati e le fedelissime truppe indigene si batterono corpo a corpo con disperato valore e Cheren
venne tenuta, ma il giorno dopo — a conclusione di ripetuti e accaniti assalti — gli inglesi riuscirono ad occupare le
Cime Biforcute dalle quali potevano dominare un chilometro e mezzo del nostro schieramento difensivo.
Il battaglione «Uork Amba», passato alle dipendenze del generale Lorenzini, venne dapprima inviato a monte Agher,
non lontano da Cheren, quando la situazione appariva
disperata; dopo una ricognizione effettuata da una compagnia in Val Bogù tra il 10 e l’11 febbraio, il battaglione
(che aveva notevoli perdite per gli attacchi aerei) si trasferì in fondo
valle, ad Abi-Mentel per venire inviato a Cheren ove l’aveva preceduto il ten. col. Peluselli.
Gli inglesi avevano intanto disposto una ventina di nidi di mitragliatrici per cui un attacco frontale appariva
impossibile e bisognava quindi attaccare il nemico prendendolo alle spalle.
Il capitano Carmelo Romeo si buttò sul fondovalle con diciotto alpini; con fucili a tracolla e le tasche colme di bombe,
le diciannove Penne nere salirono lentamente per non far cadere i sassi, aggrappandosi agli arbusti e strisciando verso
le posizioni avversarie: piombarono sul primo nucleo di mitragliatrici distruggendolo; dopo un attimo di riposo
attaccarono Cima Tre travolgendo il nemico a colpi di bombe e di baionetta; a Cima Due bastarono pochi secondi di azione
decisivi per far sparire una postazione di mortai inglesi da 81; alla quarta ora di combattimento il Nido d’Aquila
(ultimo picco della Biforcuta) venne conquistato dagli alpini urlanti ed irresistibili che — trovato il rancio a cuocere
sul fuoco preparato dai nemici in una caverna — conclusero la grande impresa con una salutare colazione.
Gli altri alpini dell’Uork Amba fecero il resto in modo che venissero sloggiati dalle loro posizioni 800 indiani guidati da
11 ufficiali inglesi.
L'eroico capitano Romeo venne decorato sul campo con la medaglia d’argento al valore militare, e molte
decorazioni vennero meritatamente proposte anche se poi non ebbero seguito; ma l’ammirazione dello stesso nemico
(stupito che fossero bastati cinquecento alpini a ripulire le Cime Biforcute) valsero come una decorazione per tutti,
avvalorata anche dalla dichiarazione di un ufficiale inglese ferito e catturato che disse: «Se avessi saputo di
incontrare alpini anche in Africa, me ne sarei restato a Eton!».
L’avversario non si diede per vinto e già dall’alba del 12 febbraio iniziò a martellare con le
artiglierie tra lo Zelalè e il Falestoh, avanzando poi nella selletta del Colle dell’Acqua; venne investito il 4° «Toselli»
(che in pochi minuti perse 12 ufficiali e 300 soldati coloniali) ma accorsero granatieri, bersaglieri,
eritrei, cavalleggeri e genieri e anche i conducenti che scendevano con il rancio. In breve il nemico dovette ritirarsi
frettolosamente verso Agordat.
La prima battaglia di Cheren era vinta.
Gli alpini dell'Uork Amba raccolsero i propri Caduti in un cimitero contraddistinto da una lamiera squarciata da una
scheggia e con la scritta «Anima devota e patriota che giri lo sguardo su queste rocce sacre alla
gloria alpina, alza il pensiero alla misericordia divina, recita un requiem per gli eroici caduti, figli del battaglione
Uork Amba».
*
Seguirono venti giorni di relativa calma, salvo alcuni attacchi della Brig’s Force che vennero subitamente respinti.
Le forze contrapposte si andavano riorganizzando, con la determinante differenza che l’avversario poteva far affluire forze
fresche e nuovi mezzi mentre i nostri reparti erano quasi sempre i medesimi e i magazzini vuoti.
Alla fine di febbraio del 1941 il fronte tenuto dai nostri soldati era di circa sessanta chilometri: la media di un soldato
ogni tre metri e di un cannone di piccolo calibro ogni mezzo chilometro. Tra il 24 febbraio e il 4 marzo gli alpini dell’Uork
Amba tennero sia le Cime Biforcute che il monte Panettone.
Il 28 febbraio Cheren, Dekameré e Adi Ugri vennero sconvolte dal terrificante bombardamento di tre successive ondate di aerei,
e il 4 marzo le truppe d’assalto inglesi occuparono il monte Tetri di dove,
nel corso della successiva notte, vennero ricacciati dai carabinieri e dal battaglione Uork Amba che vi era stato prontamente inviato.
Il 10 marzo venne respinta la Legione straniera che, rafforzata da battaglioni senegalesi, aveva tentato di forzare la stretta di Ander;
respinto venne pure l’attacco al monte Engiahat sferrato nei giorni successivi.
Ma la 4° e la 5° divisione anglo-indiane si attestarono fra il Sanchil e il Samanna, per l’attacco al Dologorodoc,
appoggiate dalla Brig’s Force e dal Gazzelle Force e con uno schieramento — sul versante orientale del Samanna — di
batterie da 88 e 152 aventi una gittata di oltre 11 chilometri.
E il 15 marzo iniziò la nuova terrificante battaglia che vide il sacrificio e l’eroismo degli alpini dell’Uork Amba come pure
dei bersaglieri, dei carabinieri, degli artiglieri, granatieri e cavalleggeri, dei genieri e dei fedelissimi
ascari.
Sui nostri reparti piovvero, in poche ore, oltre 32 mila granate; il combattimento che seguì durò
quindici ore, ininterrottamente.
Il successivo giorno, 16 marzo, la lotta continuò furibonda e tutti i nostri reparti furono
superiori ad ogni elogio.
L’Uork Amba, attestato sul Samanna, fu ancora ammirevole. Il sottotenente Bortolo Castellani, da
Belluno, cadde meritandosi la medaglia d'oro al valore militare con la seguente motivazione datata a Cheren, febbraio
- 16 marzo 1941: «Alla testa del suo plotone, a cui aveva saputo infondere l’altissimo spirito del quale si sentiva
animato, in un arditissimo attacco a posizione montana, ricacciava il nemico con numerosi assalti a bombe a mano,
cooperando decisamente alla conquista della posizione ed alla cattura di prigionieri; benché ferito e febbricitante,
non abbandonava il reparto, concorrendo, con indomito valore, a stroncare i furiosi contrattacchi nemici, rinunciando
ad altro comando che lo avrebbe allontanato dalla linea di combattimento e benché febbricitante, partecipava ad una
sanguinosa azione che durava da varie ore, prendendo il posto di vari ufficiali rimasti feriti. Volontariamente si
offriva poi per conquistare un posto avanzato caduto in mano del nemico, e mentre trascinava i suoi uomini con superbo
coraggio, cadeva colpito a morte. Magnifica figura di eroico combattente».
Gli alpini di Peluselli tenevano ancora decisamente le posizioni quando giunse l'ordine di trasferimento perchè destinati
ad attaccare il Dologorodoc; e nel corso della notte
l’Uork Amba andò all’assalto,
unitamente ad altri reparti sulla sinistra e con l’appoggio del fuoco da destra. Le prime linee avversarie vennero
prestamente travolte e l’avanzata era giunta fino ai reticolati, quando la nostra artiglieria, tratta in inganno dai
razzi nemici, colpì i nostri alpini!
Costituita una linea di difesa tra la regione Pozzi e le pendici del monte Zebay, nel pomeriggio
del giorno 18 giunse l’ordine di riattaccare; 1’Uork Amba era al centro dello schieramento e attaccò con slancio ma i
reparti alle ali procedevano troppo lentamente per cui il fuoco nemico venne concentrato unicamente sugli alpini. Venne
te- rito il comandante del battaglione, come pure molti altri ufficiali; cadde il sottotenente Bruno Brusco da Verona
che meritò (Cheren, 11 febbraio - 18 marzo 1941) la medaglia d’oro al valore militare con la seguente motivazione:
«Comandante di plotone fucilieri alpini, con l’esempio, perizia e coraggio concorreva all'occupazione di importantissima
e munita posizione montana che teneva poi saldamente nonostante i ripetuti contrattacchi nemici. Pronunciatosi un forte
attacco nemico, alla testa del proprio plotone partecipava a una dura lotta di oltre due giorni concorrendo con il
proprio esempio ed indomito coraggio a stroncare la baldanza nemica. Successivamente, benché febbricitante, prendeva
parte a nuova azione, riuscendo anche in tale occasione a dare prova di vero coraggio portando di lancio i propri uomini
oltre i reticolati nemici. Benché colpito ad un braccio, incurante di se stesso, sempre alla testa del suo plotone ed al
grido di «FORZA ALPINI», trascinava alla lotta a corpo a corpo col nemico sino a che colpito a morte cadeva
eroicamente gridando «VIVA L’ITALIA». Fulgido esempio di valor militare e di attaccamento al dovere».
Nuovi vani attacchi vennero effettuati alle 1,30 e alle 4,30 del 19; il ten. col. Peluselli,
seriamente ferito, ebbe l’ordine di farsi ricoverare e passò il comando al capitano Rodolfo Müller che, con un solo
ufficiale subalterno, continuò a tenere la linea.
Ormai le compagnie erano comandate da valorosi sottufficiali superstiti che si comportarono
ammirevolmente e tra i quali vanno ricordati il trevigiano Antonio Bianchi e il friulano Emilio Ognissanti.
Anche le perdite degli avversari inglesi, francesi e indiani si andavano paurosamente accumulando,
ma i continui rifornimenti e rinforzi fecero apparire ormai decise le sorti della terribile battaglia.
Il 17 marzo era caduto il generale Orlando Lorenzini mentre, col cappello d’alpino in testa,
dirigeva l’azione contro il Dologorodoc; alla sua memoria venne conferita la medaglia d'oro.
Gli eroismi furono innumerevoli e sovrumani, ma all’alba del 27 marzo i reparti italiani, con
l’Uork Amba in retroguardia, lasciarono Cheren: dopo 56 giorni di combattimenti.
Tra italiani e nativi, i nostri soldati a Cheren erano 45 mila e ne morirono 12.147; 21.700
riportarono ferite e mutilazioni; non vi fu un solo disertore italiano né eritreo.
Gli alpini dell’Uork Amba erano 916. Dei 21 ufficiali, 5 sono morti e 14 gli spedalizzati; tra i 55 sottufficiali i morti
furono 18 e i feriti spedalizzati 26; degli
840 uomini di truppa ne morirono 300; ne vennero ricoverati per ferite 420. In totale le perdite furono di 783 su 916: l’86 per cento!
Con motivazione datata «Africa Orientale, 9 febbraio - 27 marzo 1941», il Battaglione meritò alla
bandiera del Reggimento la seguente medaglia d’argento al valore militare: «Durante aspra, prolungata battaglia contro
preponderanti forze terrestri ed aeree, impegnato in successive critiche situazioni, si imponeva per elevato spirito guerriero tenendo testa,
a costo di sanguinosi sacrifici, ad agguerrito avversario cui dava luminose prove di indomabile
tenacia e valore».
Dopo essersi attestati a Ad Teclesan, i pochi alpini rimasti validi raggiunsero Zàzega e, il 31
marzo, l’Asmara; l’1 aprile passarono per Nefasit e Ghinda e infine a Massaua dove combatterono fino all’8 aprile per
la disperata difesa di quella città; i sopravvissuti proseguisono per Decameré ed Agordat per concludere sull’Amba Alagi
a fianco degli altri magnifici soldati del duca d’Aosta la vita del Battaglione alpino «Uork Amba», durata cinque anni
ma che rimarrà indelebile nella storia d’Italia.